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«Mindhunter», incontri ravvicinati con il male e la follia

«Mindhunter», incontri ravvicinati con il male e la folliaUna scena da «Mindhunter»

Serie Tv Lo star system nel mondo dei serial killer statunitensi fa da sfondo alla nuova serie di David Fincher, disponibile su Netflix

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 18 ottobre 2017

Ed Kemper, John Wayne Gacy, Richard Speck, David Berkowitz, Charles Manson…. È lo star system nell’universo dei serial killer che fa da sfondo alla nuova serie tv di David Fincher Mindhunter.
Articolata in dieci episodi di circa un’ora, accessibili da venerdì scorso su Netflix, la nuova creazione dell’autore di House of Cards abbandona l’intrigo politico di Washington e lavora su un territorio in cui Fincher si è già avventurato più volte, con Seven, Zodiac e il meno conosciuto The Game. La fonte è il libro omonimo, uscito nel 1995, del celebre agente FBI John Edward Douglas, un pioniere della psicologia criminale applicata al law enforcement, il cui lavoro ha ispirato anche i romanzi di Thomas Harris su Hannibal Lecter, con il personaggio di Jack Crawford inteso proprio come un alias di Douglas.

Ambientato a ridosso della torrida estate 1977, che fece da teatro agli omicidi del serial killer newyorkese David Berkowiz (aka Son of Sam) e in cui Spike Lee ambientò il suo Summer of Sam, l’attacco di Mindhunter gioca con l’idea che insieme a sex, drugs e rock n’roll, al movimento pacifista a quello per i diritti civili, il nuovo mondo svelato dalla grande rivoluzione culturale dei Sixties includa linguaggi, realtà e demoni che vanno decifrati secondo codici diversi da quelli utilizzati per interpretare l’America tutta d’un pezzo di Eisenhower. Anche l’FBI deve adeguarsi a questo nuovo elemento di irrazionalità – la tradizionale, lineare, logica causa/effetto non riesce infatti a spiegare crimini come la strage compiuta dalla Manson Family.

All’avanguardia di coloro che vorrebbero spingere il Bureau verso un’incarnazione post Elliot Ness, ma anche post Edgar Hoover, è il giovane Holden Ford (Jonathan Groff, da Glee), un esperto negoziatore in situazioni con ostaggi, che incontriamo mentre sta cercando di convincere ad arrendersi un uomo nudo, in stato confusionale, che minaccia di uccidere una signora, senza nessuna ragione apparente. Alla fine della tesa trattativa, lei è libera e tremante, lui ha il cranio sfracellato dal colpo che si è tirato in testa. Per i superiori di Ford, l’operazione è stata un successo: nessuna vittima tra gli ostaggi. Per lui no: c’è un cadavere di troppo.

Accedere a menti come quella di quel poveretto, ai fini di prevenire o risolvere altri crimini, diventa un’ossessione per Ford, che prende appunti guardando Quel pomeriggio di un giorno da cani e, essendo un ragazzo ambizioso, sceglie di partire dai rebus più difficili. Perché non intervistare, per esempio, lo stesso Manson, o «mostri» come lui capaci di orrori impensabili? Ford trova l’occasione di praticare il suo esperimento quando, insieme al collega veterano Bill Tench (Holt McCallany), viene spedito, da Quantico, a impartire lezioni sulle nuove tecniche FBI ai dipartimenti di polizia locale.

Con un’intelligente soluzione grafica di scritte, superimposta a inquadrature di diverse Main Street (combinazione visiva sintetica da cinema B della Hollywood anni trenta, che dà alla serie un bel movimento anche geografico), i due G-men viaggiano di stato in stato e di contea in contea, impartendo (non sempre ben accolte) le nuove dottrine del Bureau e (con più successo) offrendo una mano a colleghi che non riescono a ricondurre la tranquilla vita di provincia della loro cittadina all’immagine di una vecchietta picchiata a sangue vicino al suo cane sgozzato, sul terrazzo di casa, dove non si è verificato nessun furto.

Inizialmente all’insaputa dei loro superiori, mentre sono on the road, Ford e Tench cominciano anche a condurre interviste ai peggiori serial killer ospitati dalle prigioni USA. A partire da Ed Kemper, un gigante di più di due metri e oltre 110 chili, che uccise nonni, mamma e almeno cinque altre donne, reo confesso anche di necrofilia, e che sta tuttora scontando otto ergastoli in un penitenziario di stato della californiana Vacaville.

Fincher, dietro alla cinepresa nei primi e negli ultimi due episodi di questa season 1, dirige quasi tutte le scene in cui appare Kemper (l’attore Cameron Britton), che sono tra le più terrorizzanti della serie, insieme a brevissimi prologhi che, di episodio in episodio, fotografano l’esistenza apparentemente normale di un signore del Kansas, di cui non sappiamo nulla (ma che potrebbe, in season 2, rivelarsi Dennis Reader. il famigerato BTK Strangler, attivo tra il 1974 e il 1991).

Chiaramente affascinato da questi confronti ravvicinati con «il male» (confronti negati ai protagonisti di Zodiac), Fincher ne trae i momenti migliori delle serie, imbevuta dei colori densi a malati che caratterizzano il suo cinema. Nelle mani di questo autore ossessionato dal controllo formale, Mindhunter (cacciatore di menti, quindi, non di uomini come nel film di Michael Mann) è un viaggio nella ragione che coincide con un viaggio nella follia, una battaglia in cui la logica si trova solo nel caos più profondo.

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