Solo i grandi artisti sanno confrontarsi con le narrazioni classiche senza ridurle a mera «fiction», ma usandole come un «pre-testo» da adattare al proprio immaginario. Così, a distanza di oltre 15 anni dal suo primo lungometraggio Quijote, Mimmo Paladino è ritornato dietro l’obiettivo della cinepresa contaminando insieme la buona novella, il poema dantesco e il presepe napoletano. Nasce così La divina cometa, allegoria senza tempo dove ogni inquadratura diventa «quadro» nel senso più ampio del termine, e cioè di volta in volta installazione, teatro, scultura, performance, pur restando grande cinema. «Ho sempre pensato che un film non si sostituisca alla pittura, non vi si sovrapponga, è semplicemente un’altra cosa», scriveva l’artista in occasione dell’uscita del Quijote, ma quelle stesse parole sono valide anche oggi. «Nello stesso tempo però se guardi nell’obiettivo, nel rettangolo della macchina da presa puoi immaginare che quello sia lo spazio della tela». E aggiunge: «creare un film è qualcosa di analogo alla scultura ma è come plasmare la luce. Questo è quello che mi ha affascinato. Lavorare con la luce che si materializza, che diventa immagine, movimento, parola, suono». In quel film, così come ne La divina cometa, la mirabile fotografia di Cesare Accetta esalta ancor più la ricerca iconografica di Paladino che trasforma ogni immagine in qualcosa di compiuto in sé.
Fin dalla prima scena del film, con il sommo poeta in piedi su una barca accompagnato da una banda musicale mentre solca il mare, Paladino ci fa entrare in un universo ricco di citazioni e topoi letterari, pittorici e filosofici, in un discorso a più voci che vede – tra interpreti principali e camei di amici non professionisti – un nutrito cast: Tomas Arana, Mimmo Borrelli, Ferdinando Bruni, Luigi Credendino, Francesco De Gregori, Elio De Capitani, Nino D’Angelo, Cristina Donadio, Giovanni Esposito, Giuliana Gargiulo Alessandro Haber, Enzo Moscato, Ginestra Paladino, Sergio Rubini, Luca Saccoia, Peppe Servillo, Toni Servillo, Eliot Sumner, Tonino Taiuti, Giovanni Veronesi e Sergio Vitolo. La «sacra famiglia» alla ricerca di una casa è composta da tre sfollati dell’ultima guerra (padre, madre e figlio) e il loro vagabondaggio si intreccia con quello dei re magi, che non sono tre ma ben cinque e come doni portano il teatro, la poesia, la musica, la filosofia e il nulla (da qui un suggestivo discorso filosofico sul vuoto e sul pieno che contrappone da sempre Oriente e Occidente). A queste sequenze si alterna il viaggio di Dante, che attraversa gli stessi luoghi biblici, tra bestemmie e miserie, creazioni artistiche e idee eretiche, inferni e paradisi di bellezza. Una bellezza che, in fondo, rimane il vero scopo cui tutti tendono tutti i personaggi.
Ci sono due modi di vedere La divina cometa: il primo è cercare di individuare e di interpretare le diverse figure che affollano questo antico ed eterno presepio, i rimandi, gli omaggi, le citazioni, i brani che dalla lingua di Dante vengono trasformati in dialetto napoletano. «Ho lavorato sul linguaggio» – ha detto Paladino in un’intervista – «nel modo in cui lavoro sulla pittura, tra astrazione e figurazione, tra tela bidimensionale e quadro materico, con vari ’gradi’ di parlato, dal napoletano arcaico al filosofeggiare di Lucifero, in un gioco di alti e bassi, di popolare e coltissimo. Il linguaggio è come una sorta di materia viva, plastica, visiva, che si ricompone nella storia». Il secondo modo è quello di lasciarsi andare a un flusso continuo che mescola il passato e il presente; lasciarsi risucchiare in un labirinto visivo tra tableaux vivants (Peppe Servillo è San Gerolamo nel suo studio dipinto da Antonello da Messina) e figure di filosofi, matematici e artisti (da Pitagora a Giordano Bruno al Pontormo, interpretato dal regista Giovanni Veronesi che si rivela ottimo attore) fino a figure dantesche (il conte Ugolino-Toni Servillo, in mezzo a ganci da macello e blocchi di ghiaccio).
Le location e le scenografie rivestono naturalmente un ruolo importante ne La divina cometa. In alcuni casi Paladino ha girato le scene in luoghi dove vi sono sue opere (come l’Hortus Conclusus nel convento di San Domenico a Benevento), in altri ha ricercato cave o stazioni abbandonate, in altri ancora ha creato ambienti (con l’ausilio di Luigi Ferrigno) che potrebbero diventare al di fuori del film installazioni artistiche. La divina cometa è, naturalmente, anche grande teatro con numi tutelari come Shakeaspeare ed Eduardo, mentre – dal punto di vista sonoro – si segnalano gli apporti di Brian Eno e Philip Glass che hanno regalato all’artista i loro brani, consentendogli di realizzare un film che – pur ricco di attori e di set tra Puglia e Campania – rimane miracolosamente a basso budget.
In fondo l’operazione è simile a quella del Quijote, in cui il capolavoro di Cervantes offriva all’artista spunti per un altro viaggio nel mondo dell’arte. L’ambizione dichiarata è stata però quella di realizzare un film di più ampio respiro che l’artista e cineasta si augura possa essere visto come «film natalizio» da un numero più vasto di spettatori.
La filmografia di Paladino si completa con due cortometraggi, entrambi del 2013 Il primo, Il Sembra e l’Alzolaio, segna la sua incursione nel campo del cinema d’animazione, un territorio da sempre fertile per gli artisti che vogliono utilizzare le immagini in movimento come prolungamento del disegno e della pittura: in questa fiaba moderna – raccontata da Alessandro Bergonzoni – le opere grafiche di Paladino vengono animate potenziando così la loro dimensione onirica e visionaria. Il secondo, Labyrinthus, girato tutto all’interno dell’archivio di Stato di Roma a Sant’Ivo alla Sapienza, vede come protagonista il musicista Gesualdo Da Venosa (interpretato da Alessandro Haber), che recita il suo testamento; il breve film – installato in quell’anno nella Villa Rufolo di Ravello insieme ad alcune sculture – prende non tanto in considerazione il versante musicale quanto la vertigine affabulatoria e sonora (con venature quasi futuriste) del personaggio. Il titolo allude a quel «labirinto da cui non si può uscire, come se la musica di Gesualdo fosse un intrico complesso da eseguire», spiegò l’artista beneventano nel presentare il tributo a questa incredibile figura a 400 anni dalla morte, alla «ricerca ansiosa della perfezione». Una perfezione che lo ha condotto alla follia.
La divina cometa – scritto insieme a Maurizio Braucci – segna non solo un ritorno alle immagini in movimento, ma anche a una riflessione necessaria che, attraverso queste immagini, Paladino vuole operare sul sapere e soprattutto sull’arte in tutte le sue forme. Del resto dal disegno alla scultura, agli interventi di land art al suono, dalla fotografia al cinema, Paladino ha sempre allargato il suo orizzonte espressivo. Quest’ultimo film, dunque, può essere anche letto come un saggio filmato sul potere della parola e della bellezza, in attesa che – lo auspichiamo – una grande esposizione sulle sue relazioni con il cinema possa essere allestita in qualche museo, permettendo così di far dialogare i film e le opere nello stesso spazio e restituendo allo spettatore una visione di insieme ancor più ricca del suo affascinante multiverso.