Lo chiamavano Bags, borse. Non quelle per la spesa, quelle sotto gli occhi che aveva anche il Duca del jazz, Duke Ellington. Forse segno di ipertensione, forse semplice, ineludibile caratteristica personale che si imprime sui volti quando la vita da jazzista comincia a stropicciarti gli abiti e il viso. Bags era Milton Jackson, detto Milt, nato a Detroit, la «motor city» capitale del Michigan l’1 gennaio 1923, cent’anni fa. Professione: miglior vibrafonista al mondo nell’età moderna del jazz, dopo quella classica e swing dominata, per quanto riguarda il vibrafono, dalle evoluzioni scoppiettanti, dalle performance teatrali e istrioniche di Lionel Hampton, e da quelle, più misurate, di Red Norvo.
Le storie dei grandi musicisti sono sempre complesse e poco lineari: molte piste, molti sentieri concorrono a tracciare strade maestre che poi, ex post, è facile prima riconoscere e poi ascrivere direttamente al canone più conosciuto. Milt Jackson resta legato a filo doppio, per il grande pubblico del jazz, alla vicenda strepitosamente elegante del Modern Jazz Quartet, spartiacque dirimente della sua luminosa carriera, un po’ come il nome di Dave Brubeck resta unito per sempre a quello del suo Quartet. Una ricostruzione per forza di cose sommaria dei molti decenni della sua vita attiva e feconda di incisioni discografiche, interventi e migliaia di concerti ci va a indicare che sì, il MJQ è stato un perno centrale, ma la figura di Milt Jackson con il suono prezioso del suo vibrafono va ben oltre una delle esperienze più classicheggianti e blasé della storia del jazz. Bisogna riandare a quegli anni fiammeggianti in cui John Birks Gillespie detto da tutti «Dizzy» (il pazzerellone) aveva trovato un punto di saldatura tra i piccoli, saettanti, nevrotici combo che suonavano il bebop delle notti newyorkesi e la potenza di fuoco delle big band che avevano donato allo Swing quell’iniziale maiuscola, a caratterizzare l’intera era roosveltiana. Dizzy, per tappe successive, aveva cooptato nella sua big band che riusciva a suonare «bebop orchestrale» praticamente tutto il futuro Modern Jazz Quartet. Milt Jackson l’aveva assunto nel ’46 e scovato nel 1945, l’anno in cui finì la seconda guerra mondiale, in un club di Detroit: l’allora ventiduenne vibrafonista dal suono già memorabile (e innovativo) sul suo vibrafono aveva studiato al College di stato del Michigan e imparato a suonare, oltre al suo amato strumento con le mazzette felpate, prima la chitarra, poi pianoforte, contrabbasso e batteria: si faccia caso, comprende praticamente l’assetto timbrico che avrà, al completo, il Modern Jazz Quartet. Prima di assumere quel nome, però, vanno ricordate anche le interessanti incisioni in quintetto a nome di Thelonious Monk, e poi la prima incisione a quattro, il 18 agosto 1951, sotto l’ala confortante di Dizzy (Dee Gee Records) a nome del Milt Jackson Quartet: con John Lewis, Ray Brown e Kenny Clarke. Si va delineando quella dialettica scintillante, di aerea leggerezza tra le mani di John Lewis sul pianoforte, il cui stile essenziale, spesso in staccato e pieno di riferimenti ai profili melodico ritmici della musica barocca, è una vera novità, e la ricerca perseguita e invariabilmente trovata dell’incastro contrappuntistico con le lamelle amplificate di Milt Jackson.

COLPI CADENZATI
Questo sarà il cuore del Modern Jazz Quartet: un cuore che comincia a battere i suoi colpi sapientemente cadenzati tre giorni prima del Natale del 1952, con il suono inconfondibile del vibrafono di Milt Jackson: la materia sonora è sì veicolata dalle lamelle ai tubi simili a quelli di un organo fino ad incontrare piccole eliche azionate elettricamente, ma Bags prende l’abitudine di rallentarne la velocità, in modo che i timbri risultino più alonati, più riverberati, aiutato anche da un uso accorto del pedale. Piccola ma significativa scoperta che influirà sulle scelte estetiche di tutto il gruppo, implementando quell’eleganza formale unita alla nervatura ritmica perfetta e calibrata che ne resterà la cifra per decenni e centinaia di concerti. Un’eleganza (anche formale nel mondo di porsi sul palco: sempre in smoking) che non impedirà certo al piccolo combo né di dimenticare la materia blues e bop, né di recepire le istanze più innovative di quanto si muoveva attorno nel jazz più vivace intellettualmente: ad esempio fornendo una clamorosa versione di Lonely Woman, lo straziato, possente brano di Ornette Coleman ispirato a un quadro sulla solitudine metropolitana.
Le belle avventure sonore con il Modern Jazz Quartet per Milt durano fino al ’74: poi c’è uno iato che dura sino al 1981, le strade con John Lewis si dividono, poi si ritrovano. Belle avventure che non devono far dimenticare che il vibrafono di Jackson ha arricchito decine di registrazioni importanti di altro segno stilistico, in quel momento di grande effervescenza creativa che sono stati gli anni Cinquanta del Novecento. Tra giugno e dicembre del 1954 Milt Jackson presta le sue bacchette al «Dark Magus», e Miles Davis, innamorato di una sua composizione, un blues discendente che è un perfetto trampolino di lancio per gli assoli dei bravi strumentisti ricambia usandola nel disco, e intitolandolo così: Bags’ Groove. In studio si alternano al piano Monk e Horace Silver, la ritmica è degli amici e sodali Percy Heath e Kenny Clarke, in cinque tracce il vibrafono alonato di Milt è un mare educato di emozioni che sostiene il canto robusto e virile del sax tenore di Sonny Rollins, accostato alla tromba unica di Miles. L’esperienza si ripete l’anno dopo, nel ’55, e stavolta il gruppo è accreditato come Miles Davis and Milt Jackson Quintet/Sextet: ancora una formazione stellare, con la base solida del basso di Percy Heath, Art Taylor alla batteria, Ray Bryant al piano e la forza esplosiva del sax contralto di Jackie McLean, che arriva in studio strafatto, ma porta in dote all’album due furiosi blues parkeriani , Minor March e Dr. Jackle sui quali il vibrafono di Bags volteggia con sapiente intelligenza e perfetta architettura di fraseggio.

INCONTRI
Un altro incontro importante è con il contraltista dirompente Cannonball Adderley, nel ’58, disco a doppio nome, Things Are Gettin’ Better, Art Blakey con la sua batteria sempre pronta a tuonare nel gruppo, Wyn Kelly al piano, Percy Heath al basso: l’anno successivo Cannoball inciderà l’epocale Kind of Blue di Miles Davis. Quando Bags lascia il MJQ, gli stende un tappeto rosso la Pablo di Norman Granz. Jackson è una delle figure perfette, col suo suono aggraziato e pieno di swing, per collaborare con chiunque, sui palchi e in sala di registrazione: da Oscar Peterson a Niels Pedersen, da Tommy Flanagan a Blue Mitchell, Joe Pass, Ray Brown. Questi ultimi due musicisti andranno a costituire l’ossatura, aggiunto Mickey Rocker, per All Too Soon, un tributo a Duke Ellington particolarmente riuscito. Poi Milt Jackson rientra nei ranghi perfetti del Modern Jazz Quartet, finalmente pacificato, anche se continuerà a collaborare con una pletora di amici ormai importanti come i vecchi sodali del MJQ, a partire da Oscar Peterson, cui dà una mano anche dopo che il pianista virtuoso, infartuato, non ha più la mobilità vertiginosa nelle dita di prima. Dà una mano anche per costruire Dream del magnifico Jimmy Scott, vocalist col corpo di bambino per la sindrome di Kallman e una voce androgina speciale. Bags muore di cancro al fegato nell’ottobre del ’99. Si ferma il vibrafono più elegante della storia del jazz.