Milosz, poi da un ovolo gigantesco prese forma il sole angelico
Mistici del Novecento Il 14 dicembre 1914 O.V. De L. Milosz, scrittore di origine lituana naturalizzato francese, ebbe una visione mistica che gli cambiò la vita e lo stile poetico. Ora Medusa traduce «Gli Arcani» (1927)
Mistici del Novecento Il 14 dicembre 1914 O.V. De L. Milosz, scrittore di origine lituana naturalizzato francese, ebbe una visione mistica che gli cambiò la vita e lo stile poetico. Ora Medusa traduce «Gli Arcani» (1927)
O. V. de L. Milosz, autore di origine lituana che scriveva in francese, visse tra il 1877, dove nacque a Cereja, nel cuore della Bielorussia, e il 1939, anno in cui si spense in maniera rocambolesca. Sopravvenne infatti il 2 marzo un arresto cardiaco dopo che rincorse un canarino sfuggito dalla voliera nel suo minuscolo appartamento di Fontainebleau. Da tempo, ormai sofferente per un cancro alla gola, coltivava la passione per l’ornitologia e vagava nella non lontana foresta, beandosi nell’udire il canto variegato degli uccelli. Joë Bousquet, con cui era in corrispondenza, gli regalò un «Nourrissoir officiel» installato nel parco del castello e lui stesso si soprannominava «Monsieur de la Mangeoire». Per attirare i volatili bastava che fischiasse un accenno di melodia per venire attorniato da una moltitudine di uccelli che si posavano francescanamente sulle sue braccia. A un nuovo fischio si involavano, disperdendosi per ogni dove. Qualche affinità è riscontrabile con il compositore Olivier Messiaen che compose un delicato Catalogue d’oiseaux.
Fiero delle proprie ascendenze lituane, Milosz, la cui madrelingua era il polacco, divenne diplomatico della Repubblica di Lituania a Parigi e ottenne la cittadinanza francese, cambiando il proprio nome da Oskar Władysław Miłosz in O. V. de L. Milosz. Cercò di valorizzare il patrimonio culturale del suo paese, raccogliendo molteplici contributi comprendenti favole, tradizioni e canti popolari, chiamati dainos. Un altro Miłosz, il poeta polacco Czesław, che gli era lontano cugino, scrisse in La terra di Ulro (Adelphi, 2000) una serie di fondamentali testimonianze intorno alla sua figura, rese in maniera rabdomantica e coinvolgente, spesso riallacciandosi ai precursori Blake e Swedenborg: «Esaminando la bibliografia delle sue opere e quella dei lavori a lui dedicati, sono giunto alla conclusione che la cerchia dei suoi ammiratori era in Francia di tutto riguardo quando egli era in vita».
In effetti i libri di Milosz ebbero una discreta diffusione, soprattutto le raccolte poetiche che risentivano di una temperie tardo-simbolista e si rifacevano scopertamente a Baudelaire, Verlaine e Laforgue, prima della deriva mistica che gli farà propendere per un verso salmodiante d’ispirazione profetica e sapienziale. Si consideri d’altronde che Milosz fu costretto a stampare tutti i suoi libri a proprie spese, con l’unica eccezione dell’antologia Poèmes edita da Fourcade nel 1929. La sua opera è piuttosto composita, spaziando dalla poesia al romanzo, dalla pièce teatrale al saggio erudito, con un forte appello alla nozione goethiana di Weltliteratur. Non è un caso che Milosz fosse poliglotta: oltre a inglese, tedesco, italiano, russo, polacco, aveva effettuato studi di epigrafia ebraica e assira con Eugène Legrain, esegeta biblico. Nel nostro paese Milosz ebbe un picco di notorietà quando, sull’onda di un accentuato anelito cattolico, venne tradotta la trilogia teatrale che comprendeva i drammi Miguel Mañara, Mefiboseth e Saulo di Tarso (Jaca Book, 1977), cui seguirono (Città Armoniosa, 1979) L’amorosa iniziazione, romanzo sui generis ambientato in una Venezia irriconoscibile del XVIII secolo, e l’antologia poetica Sinfonia di novembre, curata da Massimo Rizzante per Adelphi nel 2007. A tal proposito Milan Kundera parlò di un poeta che «si era rifugiato nella lingua francese come in una certosa».
Le edizioni Medusa continuano nella meritoria iniziativa di proporre le opere più importanti di questo autore defilato rispetto alle correnti moderniste in auge al suo tempo: dopo La chiave dell’Apocalisse, L’amorosa iniziazione e Ars Magna, tutti editi nel 2021, è ora la volta di Gli Arcani (pp. 144, € 17,50), mai affrontato prima e ben tradotto da Laura Madella. Si tratta di un corpus di testi di difficile decifrazione, suddiviso in due parti: Il Poema degli Arcani, che raccoglie oltre cento versetti di ascendenza veterotestamentaria e il relativo commento agli stessi, intitolato Note esegetiche. Ogni versetto viene interpretato singolarmente, in una lezione che risulta spesso più oscura rispetto al brano lapidario cui dovrebbe fare da commento. Uscito originariamente presso la Librairie Teillon di Parigi nel 1927, Les Arcanes si rapporta alla lezione di Ars Magna stampato tre anni prima dalle Éditions Alice Sauerwein.
Questo volumetto conteneva l’Epistola a Storge (anticipata nella «Revue de Hollande» del gennaio 1917 e in un estratto eponimo confluito nella Confession de Lemuel del 1922), enigmatico testo a cui spesso rimandano le summenzionate Note esegetiche e dove si fa riferimento alla visione mistico-religiosa che, nella notte del 14 dicembre 1914, cambiò radicalmente l’esistenza dell’autore. Milosz racconta di essersi librato nello spazio siderale e di aver assistito, in prossimità della cima vertiginosa di un monte, alle acrobazie di un «ovolo gigantesco e rosseggiante» che gli sfiorò il volto e si trasformò in «sole angelico», svelando «una piana d’oro vaporoso» che ebbe il potere di rappacificare definitivamente i suoi sensi.
Ma è soprattutto sul piano speculativo che i due libri si pongono, formando una sorta di dittico incentrato sulla Kulturkritik che si diffuse in Europa nei primi decenni del secolo, coinvolgendo figure, molto dissimili tra loro, del calibro di Guénon, Spengler, Ortega y Gasset, Artaud, Daumal. Questa tendenza sfocerà nel tentativo di interpretare l’Apocalisse giovannea in due libelli risalenti all’inizio degli anni trenta: La Clef de l’Apocalypse e L’Apocalypse de Saint-Jean dechiffrée (ma non si dimentichino Les Origines ibériques du peuple juif, in cui cerca di dimostrare il retaggio ispanico del popolo eletto in base a una serie di lambiccati ragionamenti che rinviano a vocaboli basco-cantabrici e «a una comune matrice preistorica»). D’altronde Gli Arcani rappresenta, come osserva Riccardo De Benedetti nella postfazione, il «tentativo, non programmatico, di reintroduzione della mistica nel discorso scientifico». Nell’avvertenza all’Epistola a Storge, lo stesso autore chiama in causa il concetto di relatività in Einstein, parlando di «una coincidenza abbastanza inquietante», considerato che all’epoca non conosceva le teorie del fisico tedesco. Elabora una teoria del Movimento che coinvolge tempo, spazio e materia.
Per giustificare la svolta profetica assunta nei testi degli anni venti osserva Milosz in un sintomatico passaggio: «Avendo l’autore degli Arcana ricevuto l’ordine, durante la composizione del suo poema, di porre fine alla sua attività letteraria (dal momento che aveva concluso la missione di umile precursore), egli si è impegnato per conferire alla sua ultima opera una forma poetica, per quanto glielo consentisse la natura astratta del soggetto. Ne deriva una certa oscurità di espressione inseparabile da un’arte la cui essenza estetica è il mistero». Questa singolare forma di sincretismo tra elementi messianici ed esoterici, in parte derivante dal magistero visionario di Swedenborg, si caratterizza mediante un linguaggio ricco di simboli cabalistici e di riferimenti alchemici come la coincidentia oppositorum. Si vedano figure archetipiche quali i valori contrapposti delle lettere ebraiche aleph e beth o l’androgino che incarna «gli sponsali chimici» di origine rosacrociana, ricordato nell’incipit del versetto 75: «Come il veggente e la visione, gli sposi edenici erano indivisibile unità».
È d’altronde significativo che l’omonimo poeta polacco asserisse che questi testi pervasi di un misticismo esaltato «avrebbero potuto essere scritti solo da un uomo malato di mente». Forse quel suo lontano e inafferrabile cugino gli avrebbe risposto con il commento sardonico al versetto 68: «Voi Signori, che domani disgregherete l’atomo eppure non finirete a pavoneggiarvi con le vie lattee che si trovano a duecentomila anni luce di distanza, Voi Signori, che non pregate, siete ugualmente liberi. Ma sono io il maestro del tesoro».
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