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Milo Adami, la metamorfosi dietro lo schermo

Milo Adami, la metamorfosi dietro lo schermo

Il libro «La forma video. Tra cinema e arti visive dopo il digitale», Postmedia Books

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 5 dicembre 2020

Che cos’è e soprattutto come si è evoluto e riconfigurato il video dagli anni ’90 a oggi? Intervenendo nel dibattito con questo suo saggio, frutto di un dottorato di ricerca – «La forma video. Tra cinema e arti visive dopo il digitale» (Postmedia Books, pp. 240, 22,80 euro) Milo Adami sceglie una prospettiva precisa, e cioè analizzare le metamorfosi del medium elettronico, soprattutto attraverso alcune esposizioni chiave che hanno segnato nuove modalità di presentazione e fruizione, a cominciare dalla famosa «Passages de l’image» curata nel 1990 al Centro Pompidou da Bellour-David-Van Assche.

Del resto il passaggio dal film/video (ancora legati a supporti distinti) all’era del digitale, come sappiamo, hanno costretto sia i teorici sia i registi/artisti a mutare radicalmente approccio ma anche terminologia: la nozione più inclusiva di «immagine in movimento» (moving image, image en mouvement) e quella più specifica di «cinema esposto», sono tra quelle più significative nate nel transito epocale dall’analogico al digitale.

Se nel primo capitolo, «Le origini del trauma», Adami affronta il disperdersi del video nella galassia dei multimedia, nel secondo capitolo l’autore ripercorre mostra per mostra le nuove ricadute teoriche ed interpretative emerse dopo gli anni ’90, soffermandosi in particolare sulle videoinstallazioni. E sicuramente uno dei passaggi decisivi per comprendere meglio come l’immagine elettronica si sia avvicinata sempre più alla spettacolare immagine cinematografica, è la diffusione della videoproiezione LCD.

Da un lato l’installazione pluricanale diviene sempre più determinante nel panorama delle arti elettroniche, dall’altro anche il video monocanale (e il cinema d’artista in generale) si avvicina alla narrazione filmica. Dopo il terzo capitolo – incentrato solo sulla situazione italiana – il libro di Adami (docente sia all’ISIA di Urbino che all’Accademia di Bologna) si conclude con un ultimo capitolo, intitolato «Videografie», pensato come ipotesi di rilancio per una ricerca a venire, senza domandarsi cioè che fine abbia fatto il video ma interrogandosi piuttosto sul “dove le sue forme persistano rigenerate”. In questa parte del libro Adami si sofferma non poco anche sul dispositivo tecnologico in senso stretto, ricordando ad esempio l’importanza della Paluche, prima handcamera della storia progettata da Jeanne-Pierre Beauviala.

La forma video, in conclusione, è un libro estremamente utile per ricapitolare i principali concetti che hanno ridefinito teoricamente l’estetica video: pensiamo alle riflessioni di studiosi soprattutto francesi quali Bellour, Dubois, Fargier, Paini, Royoux e Bourriaud. Ma è anche un testo ricco di spunti sulle nuove prospettive che si aprono a partire da alcune domande chiave come la seguente: «Se l’immagine non ha più un luogo assegnato, se transita da un formato all’altro, come orientarsi? Dove cercarla?». Viene solo da pensare amaramente, leggendo il saggio, che mentre in Francia gli studi su quella che sembra ormai anacronistico chiamare videoarte sono sempre stati presi molto sul serio e hanno contribuito non poco alle riformulazioni del vasto concetto di post-cinema, in Italia per oltre vent’anni c’era solo un pugno di teorici a occuparsi di questo campo avanguardistico, visti con un scetticismo (se non disprezzo) da chi era concentrato sugli studi di cinema. Oggi, invece, pare che tutti non facciano altro che discettare di queste cose.

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