Milman Parry con Achille piè veloce da Berkeley a Parigi
Milman Parry insieme a due cantori folklorici jugoslavi negli anni trenta – Collection of Oral Literature
Alias Domenica

Milman Parry con Achille piè veloce da Berkeley a Parigi

L'Omero di Milman Parry Estate 1924, l’americano Milman Parry sbarca nella «Ville lumière». A contatto con Meillet e i migliori linguisti del tempo, approfondisce la sua tesi sulle formule orali, rivoluzionando la «questione omerica». Poi dal 1933 le missioni «comparative» nei Balcani, a registrare i cantori serbo-croati...
Pubblicato 2 mesi faEdizione del 25 agosto 2024

Nell’estate del 1924, giusto un secolo fa, Milman Parry arriva a Parigi con la moglie Marian e la primogenita di pochi mesi. L’anno prima ha conseguito ancora ventunenne il Master of Arts a Berkeley, con una tesi sulla dizione omerica che ravvisa nella densità di espressioni formulari una dinamica inedita tra convenzione e originalità, in netto contrasto con il gusto per il nuovo della letteratura posteriore. A Parigi il giovanissimo studioso americano intende così approfondire le proprie intuizioni sulle peculiarità stilistiche dell’epica greca arcaica, e il soggiorno dura fino alla primavera del 1928, quando supera la soutenance de thèse alla Sorbona e ottiene con il massimo onore il grado più alto di dottorato.

È la seconda tappa di un percorso sorprendente – segnato da snodi basilari tra le due sponde dell’Atlantico – che dovrebbe dare risposte concrete ai vetusti problemi della ‘questione omerica’. L’annosa contesa fra ‘unitari’ e ‘analitici’ – studiosi che riconducono la genesi dei poemi a una singola personalità artistica, i primi, o ne negano l’esistenza, gli altri – è ormai giunta allo stallo. Indagare la dizione omerica promette allora di archiviare le complesse teorie che distinguono, più o meno arbitrariamente, segmenti testuali di cui si vorrebbe poi ricostruire la stratificazione diacronica; ma è altresì la via d’uscita dal dogma della creazione unitaria.

La reazione alla corrente analitica, infatti, opponeva ai dubbi sull’organicità dell’Iliade e dell’Odissea solo l’apprezzamento estetico per il loro carattere monumentale, o lo scherno per la debolezza e la pluralità di argomenti su cui gli avversari non raggiungevano il minimo accordo. L’urgenza di fondare la questione su nuove basi, o di mostrarne l’irrilevanza riconoscendo la diversità di Omero dai poeti di età successive, innesca dunque l’idea di un’analisi linguistica e formale che valuti i vincoli imposti dall’esametro e metta in rilievo la dipendenza dell’atto creativo dalla forma metrica. Parry analizza in particolare le formule nome+epiteto che appaiono in posizioni fisse – il punto di sutura sono le incisioni all’interno del ritmo dattilico – e osserva come il loro carattere pervasivo rispecchi l’esigenza di facilitare la versificazione: espressioni come «Achille piè veloce» o «Odisseo molto paziente» dilatano il nome proprio, senza incidere sul senso del contesto immediato.

Il fascino esercitato in quegli anni dalla ville lumière è dunque sotteso dalla speranza di poter condividere le proprie idee sul linguaggio tradizionale dei poemi con i migliori linguisti del tempo. Parigi gli riserva incontri decisivi: Antoine Meillet, incoraggiandolo a seguire le sue intuizioni, ne apprezza i risultati già al momento della discussione dottorale, e un suo celebre allievo, Pierre Chantraine, riconoscerà l’importanza delle tesi di Parry recensendole nel ’29 sulla «Revue de Philologie». L’indagine statistica sulle formule, già suggerita nella dissertazione americana, assume infatti ben altre dimensioni e rigore dimostrativo nella tesi principale della soutenanceL’épithète traditionelle dans Homère. Essai sur un problème de style homerique – integrata da una tesi più breve su alcune anomalie metriche. La loro pubblicazione (Parigi 1928) non ne garantisce tuttavia la più ampia diffusione nella comunità scientifica; a consacrarle in modo definitivo, molti decenni dopo l’improvvisa scomparsa di Parry a soli trentatré anni, sarà la traduzione inglese curata dal figlio Adam – nato durante il soggiorno parigino, avrebbe seguito come grecista le orme del padre – che le include nella raccolta postuma dei suoi scritti (The Making of Homeric Verse. The Collected Papers of Milman Parry, Oxford 1971; e dal 2016 si dispone anche di una traduzione italiana a cura di Michele Loré: L’epiteto tradizionale in Omero, Ivo Forza editore).

L’épithète traditionelle illustra il principio operativo dello stile omerico: anziché cercare le mot juste l’aedo ricorre all’epiteto che meglio si adatti al verso; le formule – intese come «espressioni regolarmente impiegate nelle stesse condizioni metriche per esprimere una certa idea essenziale» – proprio perché create in un lungo arco di tempo, da poeti che componevano senza l’ausilio della scrittura, segnalano che i due poemi sono il prodotto di una tradizione, non di un preciso autore. La complessità e l’‘economia del sistema’ – «per un’idea essenziale in una certa condizione metrica si ha una sola formula» – così come la sua esaustività, per cui «c’è una formula per ogni idea essenziale e per ogni condizione metrica», sarebbero del resto inconcepibili come creazione individuale. La tecnica che elabora temi e scene tipiche in versi da affidare esclusivamente alla memoria sembra l’unica motivazione di un sistema così elaborato: l’esametro dunque governa e condiziona non solo la Kunstsprache omerica, ma anche l’inesauribile riserva di frasi formulari, costruite in modo da potersi legare in uno schema continuo.

A Parigi si prepara inoltre la svolta destinata a consolidare la scoperta definita, in seguito, ‘teoria orale’. Per associare in modo convincente lo stile tradizionale alla natura orale dei poemi era indispensabile osservare la prassi compositiva di cantori illetterati in tradizioni ancora vive del folklore contemporaneo. Invitando alla discussione dottorale di Parry lo slavista Matjia Murko, studioso di poesia epica orale in alcune regioni dei Balcani, Antoine Meillet dà un contributo decisivo al progetto, maturato dopo il ritorno negli Stati Uniti, di integrare lo studio del testo con la ricerca sul campo. I saggi di Murko, insieme a quelli di Marcel Jousse, antropologo che aveva osservato il potere del gesto e del movimento ritmico nella mnemotecnica e nella comunicazione orale, inducono Parry a organizzare una prima missione nei Balcani nel ’33, quando è ormai assistant professor all’Università di Harvard. Fra il ’34 e il ’35 una seconda missione coinvolge l’allievo Albert Bates Lord, che lo assisterà nell’impresa di registrare con un magnetofono le recitazioni dei ‘guslari’, cantori di poesia eroica serbo-croata. Questa seconda fase della ricerca proietta l’indagine sullo stile di Omero in una dimensione comparativParrya che darà frutti ben oltre gli studi classici ma, dopo la sua morte improvvisa, sarà Lord a sviluppare gli esiti suggeriti dall’analogia con l’epica slava meridionale; non senza contrasti e resistenze dacché, sistematizzate in dottrina dai continuatori, le idee di Parry si cristallizzano in una nuova ‘ortodossia’.

Reduce dalla missione di quindici mesi in Jugoslavia, dove aveva raccolto un’ingente quantità di materiale e si era convinto di aver conosciuto in Montenegro una sorta di Omero redivivo, Avdo Mededovic, il 3 dicembre 1935 Milman Parry muore a Los Angeles per un incidente mai del tutto chiarito: un proiettile, esploso in modo fortuito da un revolver contenuto nel suo bagaglio, gli trapassa il cuore. Una vita breve e intensa è bastata a dare solide basi alla brillante intuizione destinata a rivoluzionare gli studi omerici, ma nuove dispute, a un secolo di distanza, animano il campo degli omeristi. L’ultima generazione di studiosi contesta con vigore sia lo stereotipo della polarità tra letteratura orale e scritta, sia l’idea di ricondurre la qualità eccezionale della poesia omerica a uno stadio intermedio tra le due fasi culturali. È opportuno dunque ribadire che la gerarchia fra i rispettivi standard estetici e la visione idealizzata della cultura scritta non appartengono alla concezione originale di Parry: persuaso di aver dischiuso i segreti dell’arte poetica orale, egli avverte anzi il fascino di uno stile che si adegua al funzionamento innato della mente, ammira la particolare sensibilità di chi compone senza affidarsi a segni astratti sulla carta. Resta un suo merito aver spostato l’attenzione dall’‘individuale’ al ‘tradizionale’, ma nuove sfide derivano dalla necessità di comprendere meglio la tensione tra il singolo poeta e quel sistema tradizionale, pur senza cedere all’idea romantica, ricorrente e sempre seduttiva, dell’autore geniale che lo trascende.


*Maria Serena Mirto insegna Filologia classica all’Università di Pisa. Ha pubblicato un commento all’Iliade, Einaudi 2012²; l’edizione di tragedie euripidee (Eracle, BUR 1997; Ione, BUR 2009); la monografia Death in the Greek World. From Homer to the Classical Age, University of Oklahoma Press, 2012.

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