Proprio un grande dispiacere. Come faremo senza Carla? Aveva 87 anni, va bene, ma era sempre la ragazza arguta aguzza sapiente che avevamo in testa e che ascoltavamo con immutato piacere (per ricordi del vederla ci occorre andare indietro tanti anni, una sera al defunto Club La Palma di Roma). E l’ascolto aveva il sapore della leggerezza ben maturata. Carla portava con sé quest’idea di fresco, di maestria del debutto. Difficile pensarla morta. Si sa che la correttezza impone di non chiamare per nome solo le donne, ma noi del jazz Ornette (Coleman) lo chiamiamo Ornette e Miles (Davis) lo chiamiamo Miles e sono maschi. Noi del jazz siamo democratici.

CARLA BLEY, dunque, non c’è più. Un tumore al cervello e il 17 ottobre è finita la sua vita che abbiamo tanto amato. Aveva intitolato uno dei suoi lavori più recenti Life Goes On (2020), una cosa come la vita continua, anzi la vita va più avanti. Il titolo era tutto un programma e rimandava a quella stagione di lotte politiche intorno al ’68 che l’avevano vista in prima fila, tra società e musica. Un lavoro in trio (con Steve Swallow, il suo ultimo amore, al basso elettrico e Andy Sheppard al sax). Lei al pianoforte a esibire con ulteriore bravura la sua magistrale concisione. Una pianista che forse si collocava, quanto a stile, sulla scia dei Count Basie e John Lewis «two finger» e aggiungeva tutto il moderno e il postmoderno possibili.

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Paul Bley, tasti poeticiNata a Oakland nel 1936 come Lovella May Borg, arriva a New York a 21 anni, fa un sacco di lavoretti, frequenta i locali del nuovo jazz dove si fa il free. Conosce Paul Bley, pianista di grande apertura e saggezza, e lo sposa. Non si sa bene perché abbia mantenuto sempre il cognome Bley, anche dopo essersi sposata altre due volte: con Michael Mantler, trombettista e compositore, e con Steve Swallow appunto. Un’affinità particolare? Se dobbiamo reperirla in musica, l’operazione si può anche fare. Perché lui ha lasciato le sue esperienze di partnership con l’Ornette Coleman ormai free (fine anni ’50 del secolo scorso) per un lessico eclettico dove la cantabilità e la densità armonica hanno il ruolo principale. Lei è stata compagna d’armi dei musicisti free, ha scritto musiche d’avanguardia ma ben presto ha preso la strada della curiosità per culture musicali varie, anche popolari e classiche, tra Europa e America. In questo si somigliano: per l’eclettismo tutt’altro che fatuo e per l’agire in un filone non più classificabile come «radicale». Poi le differenze sono tantissime.

Carla Bley prima di tutto scrittrice di musica. Quando nel 1969 esce lo storico album firmato Charlie Haden, Liberation Music Orchestra, quello con la copertina che ritrae i musicisti coinvolti, da Haden a Don Cherry, da Gato Barbieri a Dewey Redman, lei e Haden ai due estremi del «cordone» di «militanti» con uno striscione che è tipo manifestazione di quei tempi, Carla ha la parte precisa dell’arrangiatrice e autrice. Il disco è un vulcano di free rovente e di elaborazioni di canti di lotta (El Quinto Regimiento, We Shall Overcome) e di guerriglia (Song for Che). La scrittura di Carla è qui il suo ritratto di pasionaria, la leggerezza matura si vedrà più avanti.

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Quando il jazz è politicaAvanguardia, musiche dell’Europa tra le due guerre (peraltro Song of the United Front di Eisler e Brecht è già in Liberation), echi di rock sono il contenuto magmatico di un altro album storico: Escalator Over the Hill del 1971. E chi scrive per un’orchestra quasi impossibile da immaginare che incide nel corso di tre anni e in cui appaiono Jimmy Lyons, Roswell Rudd, Gato Barbieri, Enrico Rava, Charlie Haden, Jeanne Lee? Naturalmente Carla. Il tocco della sua scrittura è ovunque nel disco, che in realtà esce la prima volta in tre Lp e dura un’ora e mezzo. La strada di Bley – notate che stavolta la chiamiamo per cognome – sembra segnata: la musica per grande orchestra. Lei la seguirà e si concederà distrazioni col trio di cui sopra in età più avanzata.

UN INTERROGATIVO urgente. Carla Bley moderata? Ce lo chiediamo perché le sue orchestre, le sue Carla Bley Bands, quasi sempre rimaste immutate nell’organico dai tardi anni ’70 in poi, non suonano più free in senso stretto, viaggiano lungo le rotte della cantabilità e delle reinvenzioni, qualche volta ironiche, di climi sonori passati. Nell’album Social Studies (1981) in pratica si pone lo stesso interrogativo anche lei intitolando il brano d’apertura Reactionary Tango. Quanto amabile e acuta questa ragazza! Non è per niente musica reazionaria. È un tango paradossale situabile in un Kabarett tedesco degli anni ’30 e non in Argentina. L’orchestra suona un finto morbido in realtà un ruvido ed escono fuori spunti solistici che hanno incorporato tutto il sapere del modern e del free.

HANS EISLER e dintorni occupano il cuore e la mente di Carla per parecchio tempo. Ma c’è posto, in anni recenti, per ritrovare l’America, per sintonizzarsi con le big band storiche dell’era dello swing, con Ellington, con Mingus. Escono Looking for America nel 2003 e Appearing Nightly nel 2008. Sono in organico gli inseparabili Gary Valente (trombone), Andy Sheppard (sax), Lew Soloff (tromba). Il timbro è pastoso, lo stile più colloquiale di quanto sia stato negli anni in cui l’esperienza dell’avanguardia si faceva sentire. Grande musica della nostra bionda platino, con la sua frangetta indimenticabile, con la sua avventurosa cordialità, con la sua finezza di compositrice.