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Mille luci all’Avana

Mille luci all’AvanaL'Avana – LaPresse

Cuba Dieci anni fa i cubano-americani che a Miami festeggiavano la fine di Fidel si sbagliavano di grosso. Oggi, tra riforme epocali e disgelo con gli Usa, ad essere finito è piuttosto il vecchio anticastrismo. E se la nuova crisi economica preoccupa, Cuba sorride con una "bonanza" turistica

Pubblicato circa 8 anni faEdizione del 13 agosto 2016

Fu festa grande a Miami la notte del 31 luglio di dieci anni fa. La televisione cubana aveva appena annunciato che, dopo essersi sottoposto a un complicato intervento, Fidel Castro lasciava temporaneamente la gestione di Cuba al fratello Raúl. Migliaia di cubano-americani scesero nelle strade annunciando la morte del lider maximo e l’imminente fine della «dittatura castrista».

«Si sbagliarono, e di grosso – sostiene l’analista Max Lesnik -. I cimiteri di questa parte di Miami sono pieni di tombe di cubano-americani che in varie occasioni hanno celebrato con bottiglie di champagne la morte di Fidel», ha dichiarato all’agenzia Efe un ex anticastrista. Quello che invece è morto è il vecchio anticastrismo. «Oggi – afferma Lesnik- la maggioranza di quella che veniva definita la “diaspora” cubana in Florida, e soprattutto dei giovani cubano-americani, sono favorevoli alla linea delle trattative col governo dell’Avana».

A dieci anni dalla rinuncia di Fidel alla politica attiva, il disgelo tra Cuba e gli Stati Uniti, la costruzione delle basi per un “ponte” con la comunità cubana in Florida, sono, assieme a una serie di importanti riforme nell’ambito della «modernizzazione del socialismo cubano» – apertura al settore privato, maggiori agevolazioni per gli investimenti esteri, eliminazione di una serie di restrizioni ormai insostenibili, come la compravendita di case e auto, la possibilità di viaggiare all’estero -, i capisaldi della politica riformatrice di Raúl.

Come Lenin negli anni Venti
L’avvicendamento tra Fidel e il fratello minore è stato dunque non solo privo di traumi, ma ha permesso di programmare e attuare una nuova politica di «modernizzazione» – alcuni analisti la paragonano alla Nep (Nuova politica economica) di Lenin nell’Urss degli anni venti del secolo scorso – che presuppone nuovi equilibri di potere all’interno del Partito comunista.

Il più giovane dei Castro è stato nominato formalmente presidente di Cuba a febbraio del 2008 e un mese dopo ha dato avvio alle prime riforme economiche. Da quel momento Cuba è impegnata in profonde trasformazioni, senza però allontanarsi dai propri «ideali rivoluzionari» e dalla «struttura socialista» dell’economia e della società. Oggi nell’isola più di mezzo milione di persone lavorano “in proprio”: cuentapropistas in gergo cubano, ovvero una versione (politicamente) light di imprenditori privati (definizione questa ancora osteggiata dai “talebani” del Pc).

Sono in gran parte microimprenditori e lavoratori autonomi che stanno cambiando il panorama economico dell’isola con migliaia di piccole attività, dai taxisti ai gestori di paladar (ristoranti) o bar, veri night club; dai carreteros (venditori ambulanti soprattutto di frutta e verdura) ai bicitaxi, ai proprietari di palestre e saloni di bellezza.

Non solo. La vita del cubano ha sperimentato un cambiamento consistente con la riforma migratoria del 2013: migliaia di cittadini che possono permetterselo o che con l’aiuto dei parenti riescono a ottenere un visto, escono dal paese per turismo o per affari.

L’Avana, la capitale di tutti i cubani, è lo specchio di come queste riforme già hanno prodotto una nuova classe media che ha nuovi bisogni e comportamenti. Complice un forte aumento del turismo (quest’anno si prevede un incremento di circa il 17%) la città sta cambiando volto, dalla felice ristrutturazione dell’Havana Vieja sotto l’impulso dell’historiador Eusebio Leal, all’apertura, appunto, di decine se non centinaia di bar, ristorantini, pizzerie.

Da città buia e sostanzialmente noiosa la capitale, di sera, sta accendendo le “mille luci” che la resero famosa. Tanto che è stata appena insignita del lauro di «città meravigliosa». Ed è stata, appunto, premiata dall’attuale boom turistico: una vera e propria bonanza per le asfittiche casse cubane: secondo dati ufficiali lo scorso anno il turismo ha apportato 2,8 miliardi di dollari e quest’anno, a giugno, sono giunti nell’isola 2.147.600 turisti con un incremento del 11,7% rispetto al 2015.

Assieme alla crescita del turismo Usa, si registra anche un aumento delle rimesse provenienti dai cittadini cubano-americani (e in gran parte dirette al settore privato) che, secondo dati Usa, avrebbero superato lo scorso anno i 3 miliardi di dollari. Sommate, le due voci, si avvicinano alla maggiore fonte di valuta di Cuba: la vendita all’estero (soprattutto in Venezuela) di servizi.

Previsioni di crescita dimezzate
Le conseguenze economiche del processo di normalizzazione con gli Stati Uniti, come pure l’evolvere delle riforme risultano però al di sotto delle aspettative e comunque insufficienti per dinamizzare l’economia cubana. Troppo timide e troppo lente, è la critica che gli oppositori – ma anche alcuni analisti vicini al governo – rivolgono al complesso delle riforme, compresa quella sugli investimenti esteri.

L’8 luglio, nel suo discorso di fronte all’Assemblea del potere popolare (il parlamento cubano) Raúl Castro ha riconosciuto la crisi: le previsioni di crescita per quest’anno sono state dimezzate fermandosi e all’1%. Il paese, ha detto il presidente, ha una crisi di liquidità e per questo verranno prese misure per contenere il consumo energetico e le spese in divisa (dunque gli acquisti all’estero di generi alimentari). In poche parole che verranno «tempi duri», che i negozi venderanno meno prodotti e che riprenderanno gli apagones, i tagli alla fornitura di corrente.

Sostanzialmente, l’economia di Cuba si contrae a causa dei bassi prezzi del petrolio (oltre che del nikel, maggior prodotto di esportazione). Il che è un vero paradosso per un’isola che importa greggio. La causa di tale paradosso risiede nel Venezuela, principale alleato e fonte di valuta di Cuba.

Dal 2000, quando era presidente Hugo Chávez, i due paesi hanno stabilito un accordo in base al quale Caracas paga i servizi – medici, insegnanti, istruttori sportivi – forniti dall’Avana con l’invio di circa 90 mila barili di petrolio al giorno a «prezzi preferenziali». Parte di questa fornitura – circa il 60% secondo fonti ufficiose – viene utilizzato per usi interni – centrali termiche soprattutto – il resto viene raffinato o venduto a prezzi di mercato.

Il Venezuela però da molti mesi è in preda a una pericolosa crisi istituzionale che ha devastanti effetti economici. Uno dei quali è la decisione di ridurre le forniture di greggio a Cuba, del 20% secondo fonti ufficiali, del 40 % a detta dell’agenzia Reuters.

Gli effetti si sono subito fatti sentire, a parte la riduzione delle previsioni di crescita all’1% del Pil, vi è stata la decisione di sospendere il 17% degli investimenti previsti per lo sviluppo e l’adozione di un piano per il risparmio del 30% del combustibile, con tagli ai rifornimenti per le imprese statali. Le meno produttive terminano la giornata di lavoro a mezzogiorno, mentre l’aria condizionata nel settore commerciale, bancario e istituzionale deve essere spenta varie ore al giorno.

Come conseguenza, non sono mancate le speculazioni che si stia preparando una crisi come quella – il Periodo especial – vissuta negli anni ’90 del secolo scorso, dopo l’implosione dell’Urss, dalla quale l’Avana dipendeva economicamente. La vicedirettrice del quotidiano del Pc Granma, Karina Marrón, ha messo in guardia sulla possibilità che a Cuba «si stia preparando una tempesta perfetta» a causa delle restrizioni imposte dai risparmi energetici. Segnale che una parte del partito preme per un’accelerazione delle riforme.

I più noti economisti indipendenti sostengono che i paragoni con il «periodo speciale» siano allarmi ingiustificati; ammettono però – come l’economista Pavel Vidal – che «è probabile che l’economia cubana entri in recessione, con relativo impatto negativo nel consumo e nel livello di vita dei cubani».

L’acuirsi della crisi si somma alla consapevolezza che è iniziato un periodo di transizione e che il ricambio generazionale è dietro l’angolo. Oggi però una consistente parte della società cubana non sembra disposta a mantenere l’apatia politica degli anni seguiti al periodo especial. Il settore privato e cooperativista comprende già più di 700 mila lavoratori. Si tratta del 30% della forza lavoro di Cuba.

Secondo Oslay Dueñas, ex funzionario del ministero del Lavoro, «il settore cuentapropista è il germe dal quale si formeranno i gruppi e i leader che esigeranno riforme economiche più incisive. Costituiscono una forza legale che entro un paio d’anni raggiungerà il tetto di un milione (di lavoratori) che offriranno a milioni di cubani servizi con più qualità ed efficienza del settore statale».

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