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Milano, passaggio a Nordovest nella città laboratorio

Milano, passaggio a Nordovest nella città laboratorioMilano – Marcello D'Andrea

Elezioni a Milano, nel salto d'epoca I cinque cerchi della città: il quartier generale delle multinazionali, i ceti medi delle vecchie e nuove professioni, le periferie policentriche e a rischio ghetto, le università. E chi vincerà le primarie dovrà vedersela con la destra che fa perno sul populismo che alimenta il razzismo

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 13 gennaio 2016

Le primarie a Milano sono un passaggio a Nord Ovest mai secondario nel nostro Paese. Senza andar lontano, basterà ricordare che leghismo e berlusconismo arrivavano da lì e anche, in controtendenza, quella brezza arancione della vittoria di Pisapia che spazzò via la nebbia padana, contaminando Genova, Torino, Bergamo, Brescia, Venezia e Trieste, con sindaci di centro-sinistra.

Le successive elezioni regionali, dalla Lombardia al Veneto, con il segnale forte delle astensioni in Emilia Romagna, e la recente caduta di Venezia sono lì a ricordarci che, per dirla in antico, il rapporto tra città e contado è tutt’altro che risolto.

Se vogliamo dirla in moderno, le elezioni che verranno in quelle che saranno le aree metropolitane in divenire e le smart city che disegneranno smart land a Nord, saranno tutt’altro che locali. Hanno certamente valenza e significato nazionali. Questa constatazione non tragga in inganno, non induca da subito un sorvolare i luoghi partendo da considerazioni tutte interne al travaglio del Pd e oltre, tra partito della nazione e purezza della sinistra. Sono più per ragionare con Massimiliano Smeriglio di una “sinistra socialmente utile” accompagnando i soggetti che vivono il disagio e il travaglio dei luoghi (il manifesto 10.01.16). Almeno per ciò che intendo io per politica, ossia il mettersi in mezzo tra i flussi del globale che impattano nel locale mutandone forme di convivenza, forme dei lavori, economie e società, cultura e antropologia.

Altrimenti non capirei nemmeno il travaglio (nel senso di nascita) delle primarie. Quando sono vere, sono un buon metodo per andare oltre la crisi della forma partito, la crisi della rappresentanza che produce uscita (exit) verso i populismi e per dar voce (voice) e parola ai soggetti sociali e territoriali. Sono il ricostituente necessario per una politica senza luoghi che spesso, nella società dello spettacolo e dei talk show, si fa luogo vuoto della politica.

A Milano, città porta dei flussi, questo è più vero che altrove. Anche perché i cinque anni della giunta Pisapia sono stati un laboratorio politico nel fare città e nel fare società nell’epoca dei flussi: la grande crisi, la grande migrazione dei profughi, il grande evento Expo. Con una sobrietà radicale dei gesti e delle parole della politica, e una visione che ha tenuto assieme metamorfosi della composizione sociale e funzioni metropolitane, città verticale e città orizzontale, grattacieli e periferie, residenti e movida, city users e mobilità, sicurezza e convivenza, diritti e doveri dell’essere cittadino.

La Milano che verrà non ha più da fare i conti solo con gli assestamenti del ‘900, ci aspettano tempi, nel salto d’epoca, di discontinuità che investono il fare città e il fare società che non è solo passaggio, per tornare ai numeri del Pil, dell’occupazione e della crescita pre-2008, ma metamorfosi, per dirla con Tronti, dei rapporti di produzione e forze produttive della composizione sociale e delle forme dei lavori. Discontinuità nel passaggio delle migrazioni che disegnano linee che vanno da Lampedusa al mezzanino della stazione Centrale di Milano, dove si arriva per andare oltre, in quell’Europa dell’indifferenza e dei nuovi muri.

Il tutto in un’epoca di disintermediazione. Si fa città senza più Province, si ridisegnano le Camere di Commercio e le loro funzioni e le Regioni, appare un’Area metropolitana tutta da pensare e da progettare. Con Milano al centro dell’area vasta padana, contemporaneamente terra delle eccellenze produttive del made in Italy e territorio della crisi ecologica di un modello di sviluppo da riprogettare.

Milano è la città dei cinque cerchi di funzioni e residenzialità. Il primo cerchio della neoborghesia dei flussi, 150 quartieri generali delle transnazionali, finanza e Google, Apple, Amazon, Facebook, solo per citare alcune dell’altra faccia del capitalismo delle reti. Con anche il parco a tema della moda e del fashion tra via Montenapoleone e via della Spiga. Poi c’è il cerchio dei ceti medi e delle vecchie e nuove professioni, non più solido come un tempo, che declina verso quello che un tempo era la periferia che si fa policentrica (Via Tortona, Quartoggiaro, Via Padova). Il tutto non illuda. Le periferie come le abbiamo intese nel ‘900 ci sono ancora, si fanno enclave, a rischio di ghetto, non ancora banlieu ma dense di passioni tristi e di rancore, ben visibili nei conflitti attorno al tema della casa esplosi anche a Milano. Sono contigue all’ultimo anello della logistica e dei saperi disegnato dalle Università milanesi e le sue eccellenze nel campo della salute, risorse che Milano cercherà di mobilitare per occupare e rivitalizzare lo spazio lasciato vuoto dall’Expo. Qui finisce la città che vota per il sindaco e che non potrà non avere una visione del cerchio che le tiene assieme tutte: l’area metropolitana che ingloba pezzi della città infinita che circonda Milano, guarda la regione e si fa polo nella pianura padana in transizione.

Questo, molto schematicamente, è ciò che intendo il far politica nella città globale che sta in mezzo tra i flussi e i luoghi del vivere, abitare, lavorare. Che ha messo in campo, nelle loro differenze, esperienze, saperi, competenze e passioni, adeguate.

Seguendo lo schema dai flussi ai luoghi abbiamo in campo Giuseppe Sala, uomo dei flussi, dell’esperienza dell’Expo e della sua riuscita, Pier Francesco Majorino, assessore alle politiche sociali, uomo dei luoghi, della casa dei diritti e di un’azione sociale che ha ben operato nella fase critica del mezzanino alla Stazione Centrale di Milano, e in mezzo Francesca Balzani, donna vice-sindaco con esperienze europee e milanesi di gestione di bilancio in tempi di crisi fiscale e di trasferimenti, che tiene assieme l’agire amministrativo con le opportunità per i soggetti e la città.

Una buona terna, adeguata ai tempi per primarie vere. C’è da confrontarsi e schierarsi come hanno già fatto tanti protagonisti della giunta Pisapia. Poi il candidato sindaco dovrà affrontare il centro destra. E qui che credo che a Milano si giocherà una partita non da poco. Guardando a ciò che avviene in Europa credo ci toccherà guardare, più che a Barcellona e a Madrid, a Colonia e a Parigi. A quello che alcuni studiosi, non a caso di scuola francese, definiscono il “grande ripiegamento”.

Nella discontinuità epocale dei flussi si può, come avviene a sinistra, confrontarsi sul come e con chi andare avanti, oppure rinserrarsi, ripiegarsi nel chiudere la città a fronte di incertezza, paura, crisi economica mai finita… .

Strategie che fanno perno e fanno campagna elettorale partendo dal “piccolo bianco”, metafora che va dai ceti medi in crisi alle periferie dei senza casa e senza lavoro che alimenta un “razzismo soft” che teme il cosmopolitismo dei flussi, il politically correct che rende visibili le minoranze, in nome di una città invisibile, impaurita e non raccontata. Nella mobilitazione delle primarie, la sinistra non dimentichi luoghi faglia ed eventi come Colonia a capodanno e gli 8 milioni di italiani censiti dall’ultima ricerca Censis che, per paura, stanno ripiegati in casa e nei luoghi.

Il legaforzismo, il salvinismo edulcorato alla Del Debbio che rivendica e scrive «son populista e me ne vanto», alludendo al suo essere in difesa del “piccolo bianco”, è quello che aspetta il vincitore delle primarie. Vincere a Milano significherà per una vasta area la continuità del successo politico dell’esperienza arancione di Pisapia. Farà di Milano una città “soglia”, dove l’azione politica costruisce dal basso luoghi-soglia nei quartieri, nei lavori, nell’intraprendere, nel mutualismo. Il tutto in grado di governare e temperare i flussi del cambio d’epoca che ci aspetta. «In me non c’è che futuro», scriveva Adriano Olivetti, che del rapporto tra innovazione e inclusione, l’intraprendere e le comunità concrete se ne intendeva.

In Milano non c’è che futuro… Speriamo.

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