Visioni

Milano Film Festival, cinema visionario tra pellicola e cromatismi

Milano Film Festival, cinema visionario tra pellicola e cromatismiUna scena da Land of Warm Waters

Rassegne Chiara Caterina premiata per «L’incanto», un’indagine tra voci femminili del profondo. Nel cartellone anche «Land of Warm Waters», il labirinto visivo dei fratelli Buharov

Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 12 ottobre 2021

Igor e Ivan Buharov, conosciuti anche come I Buharov, non esistono, non sono fratelli o, meglio, sono fratelli di cinema. Pseudonimo rispettivamente di Szilágyi Kornél e Hevesi Nándor, cineasti ungheresi che, con quel nome d’arte, lavorano insieme dagli anni Novanta producendo e dirigendo film (cortometraggi e lungometraggi di finzione, documentari, d’animazione) inscrivibili nel maelstrom del cinema sperimentale e d’avanguardia, nutrendosi delle memorie di quelle esperienze storiche per ri-produrle con sguardo personale, come degli artigiani che si divertono a creare immagini depistanti e fuori norma. Inoltre, I Buharov fanno musica, lavori multimediali, concerti. E il piacere, altamente teorico, di sperimentare si evidenzia anche dal ricorso alla pellicola. Si pongono, per usare una loro dichiarazione d’intenti, «danzando sui bordi dell’arte e del cinema» per «svolgere performances audiovisive surrealiste dove immagine, musica e parole diventano un tutto organico dopo il caos».

LA LORO CREAZIONE più recente si chiama Land of Warm Waters ed è stata presentata in concorso al Milano Film Festival, diretto per la terza volta da Gabriele Salvatores e Alessandro Beretta e conclusosi domenica. Il pubblico del festival I Buharov li conosce bene. La loro opera è stata proposta nel corso delle edizioni, fin dai corti d’esordio. E nel 2008 sono stati insigniti del Premio Aprile, assegnato dal gruppo di lavoro del festival.
Girato in 8mm e in 4:3, senza sceneggiatura, con una piccola troupe di amici, Land of Warm Waters è un labirinto dove ci si trova catapultati, nel quale i nostri occhi e sensi devono abituarsi allo smarrimento. Un labirinto di cui si percepiscono dei segmenti, di cui non si conoscono il varco d’ingresso e quello d’uscita. Quel che vediamo accade da qualche parte in alcuni dei suoi meandri. E gli spazi e le scene sono popolati di maghi, una donna innamorata di un uomo che è partito per gli Stati Uniti, un tipo che si installa in casa sua promettendole di contattarlo, una famiglia colpita da strane eruzioni cutanee, un’anziana che ha investito i suoi risparmi per un viaggio in Perù, un sindaco che nessuno sembra avere votato… E una donna trasformata in cactus, e viceversa. Sono personaggi che possono sparire o riapparire altrove, avere relazioni o isolarsi. E sono giochi di magia rudimentali quelli inventati dai Buharov, che affondano le radici negli albori del cinema, nello stupore, nella scoperta. Di-segnano così tracce di un viaggio lisergico, visionario, ipnotico, che non ha né inizio né fine, ma un durante i cui pezzi, le cui scene, si possono montare, smontare, sostituire – mentre i personaggi, come si trattasse di figurine, vengono ‘ritagliati’ e fatti emergere all’improvviso in mezzo a un prato, lungo una strada, accanto a un albero. La memoria va anche a David Lynch (quello di Eraserhead, soprattutto) e alle geniali trasandatezze di Ed Wood e del suo cinema amatoriale (nel senso della teoria e pratica del ‘cine-amatore’). Di fronte a questo cinema ‘primitivo’ non resta che lasciarsi avvolgere, sedurre (o legittimamente respingere) dall’immaginazione febbrile di Igor e Ivan Buharov.

 

ALLA PELLICOLA e al 4:3, e a uno sguardo sperimentale, affida la propria poetica anche Chiara Caterina. L’incanto (approdato a Milano dopo l’anteprima alla Settimana della critica di Venezia) è stato girato in Super8 e 16mm e fa collidere immagini e sonoro. La fonte visiva è rappresentata da squarci di luoghi resi ancor più fragili, e inquietanti, portatori di mistero, dai supporti scelti per filmarli, a loro volta portatori di mistero attraverso le imperfezioni e le manipolazioni compiute sulle immagini. La fonte sonora è costituita da una serie di voci, la maggior parte di donne, che si alternano e compenetrano facendo riaffiorare sia tragedie italiane vicine o non troppo lontane nel tempo sia, a partire da esse e oltre esse, riflessioni sulla morte. E allora quella collisione si rivela solo apparente. In realtà quel che si vede e quel che si ascolta è intimamente legato. L’incanto possiede l’incanto di dare forma a voci e immagini dal profondo, provenienti le prime anche da materiali d’archivio e le seconde elaborate fino a renderle un territorio abitato da fantasmi e impregnato di morte. Vale a dire due elementi su cui si fondano pure le tracce audio.

L’IMMAGINE elaborata, ma in tutt’altre direzioni, è al centro anche del documentario Dark Blossom di Frigge Fri e del film di finzione Medusa di Anita Rocha da Silveira. Fri, regista e artista visiva danese, già autrice di molti documentari brevi, videoclip e installazioni, in Dark Blossom ha seguito tre ventenni devoti alla cultura gotica descrivendone amicizia e condivisione di un mondo e di un modo di vivere alternativo non semplice da portare avanti nella città di campagna dove abitano. Al centro c’è Josephine, sua è la voce off che all’inizio ci conduce nella sua nuova quotidianità, cominciata quando incontrò Nightmare, pachistano e performer, e Jay, che ambisce a scrivere. Fri, anche direttrice della fotografia, costruisce con e attorno a loro un film rarefatto e notturno, installativo e in movimento, dark e luminoso, «tagliato» da una gamma di colori che aderisce alle emozioni e al vissuto dei personaggi.

UNA TAVOLOZZA cromatica dalle tinte forti, con esplosioni di rosso, verde, luci al neon a contrastare il realismo di base, si rintraccia ugualmente in Medusa. Un film politico sul Brasile odierno integralista e reazionario, qui in nome della fede. Un gruppo di ragazze porta alle estreme conseguenze l’appartenenza a una comunità religiosa. Fin quando una di loro inizia a prendere le distanze dalle violenze compiute dalle compagne e dai ragazzi vigilantes contro chi la pensa diversamente da loro. E, alla fine di un film che ha fatto dell’accumulo diegetico e formale il suo segno di riconoscibilità, la ribellione coinvolgerà tutte le donne, giovani e adulte, che urleranno il loro dissenso.

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