Come a riprodurre una percezione del tempo che in giardino scorre sempre indistinto, così le annotazioni raccolte sotto l’impegnativo e dissacrante titolo Lo zen e l’estasi del giardinaggio. Una guida poetica alla cura consapevole della Natura, ricavate da Miki Sakamoto in quel che definisce il suo percorso di accompagnamento, si susseguono sulla pagina come una sorta di flusso di coscienza. Un porsi domande in un dialogo di molteplici compresenze dove la descrizione delle esperienze, le immagini conservate anno dopo anno, tentano di supplire alle parole nell’intenzione di trasmetterci l’essenza del suo comunicare con il giardino (Mondadori, pp. 192, € 13,50).

Per illustrare come lo zen vi si realizzi, prendendo in prestito dalla natura i suoi motivi, contribuendo a rivelare il paesaggio di esperienze interiori in una più ampia consonanza. In giardino, sostiene l’autrice con leggerezza e ironia, piccoli accadimenti, epifanie, sensazioni, confluiscono in una lettura del mondo, e quindi di noi stessi, che si fa riflessione contemplativa, esercizio di meditazione. Con un atteggiamento che consente di inserirci nella complessità dei processi, accettarne l’impermanenza, prender parte nella pluralità del gioco dei compagni di strada al fluire di un continuo, differente rigenerarsi.

Trapiantata ormai da molti anni in Germania, provenendo da un’antica nobile famiglia giapponese, Miki Sakamoto, che si è formata a Tokyo e poi come antropologa culturale a Monaco, scrive del suo giardino con orto nella periferia di una cittadina della Baviera sudorientale, a cinquanta chilometri dalle Alpi ma con un clima relativamente mite, tornando spesso ai suoi anni giovanili nel giardino dei nonni con annesso padiglione per la cerimonia del tè, cui si accedeva, inchinandosi, dai quattro punti cardinali, da piccole porticine, ben adatte alla sua statura infantile. Oggi, il suo personale padiglione del tè consiste in un gazebo esagonale in legno nell’angolo nordoccidentale del giardino.

Le connessioni con la cultura di quello giapponese tornano spesso nelle sue riflessioni, a partire appunto da questa cerimonia, uno dei possibili percorsi del buddhismo zen, così strettamente collegato al giardino con i molti suoi luoghi dove soffermarsi, fino ai concetti di shakkei, il paesaggio preso in prestito, oltre i suoi confini, e alle differenti predilezioni, qui per la rosa, invece di quei crisantemi arrivati forse in Europa da troppo poco tempo (nel 1789) per esser considerati come in Oriente pregiate piante da giardino, espressione di raffinata modestia con cui augurare una lunga vita e divenuti invece addobbo tombale.

Spesso impigliate negli attimi, le annotazioni svisano nel volume tra considerazioni sulla vita delle pratoline, nate dove meglio credono, al mistero del come lo sbucare dei bucaneve tra il muschio e la neve conosca il suo momento propizio, su come si possa dedurre dal volo delle api che le piante di ribes e lamponi han cominciato a sbocciare, fino alla traduzione affettuosa, da lessico familiare, delle Bellis perennis come fiori «perennemente belli».
Un inventario dove, per quanto neanche nel ristretto del giardino si colga intera la complessità di rapporti e interazioni, pur ci si dice come in essa ci si senta immersi, coinvolti, contemporaneamente osservatori e coprotagonisti.

E allora vale il profumo del terriccio come respiro della terra, la consapevolezza di come la maggior parte degli alberi e dei cespugli sia una specie di lascito (e che il nocciolo è venuto su da solo), di come i giardini siano spesso tra gli ultimi spazi vitali rimasti ad api selvatiche e farfalle.

Vale, la lode di farfalle e forbicine, un fare in giardino intriso del saper aspettare e di pazienza, che pure include l’imprevisto e l’inatteso, che del giardino son propri. Vale il seguire il tracciato del volo delle lucciole, che impegnando gli occhi, rallenta i pensieri, o il tempo di osservare come gli orli del calice dell’ipomoea, aperti già di primo mattino, verso mezzogiorno si riattorcigliano, per appassire al più tardi la sera…