Miguel Bonnefoy, stregato dal sole, l’uomo e il romanzo
L'intervista Parla l’autore di «L’inventore» (66thand2nd) che racconta un pioniere della scienza. Lo scrittore francese sarà ospite domenica sera del Salerno Letteratura Festival che si apre oggi. «Mi sono imbattuto casualmente nella storia di Augustin Mouchot, un "eroe eccentrico". Perché se è spesso il caso ad aiutare la scienza, questo accade anche per la narrativa»
L'intervista Parla l’autore di «L’inventore» (66thand2nd) che racconta un pioniere della scienza. Lo scrittore francese sarà ospite domenica sera del Salerno Letteratura Festival che si apre oggi. «Mi sono imbattuto casualmente nella storia di Augustin Mouchot, un "eroe eccentrico". Perché se è spesso il caso ad aiutare la scienza, questo accade anche per la narrativa»
«Se Augustin Mouchot è uno dei grandi dimenticati della scienza non è perché le sue ricerche non siano state abbastanza perseveranti o le sue scoperte abbastanza ingegnose, ma perché la follia creatrice di questo scienziato testardo. freddo e severo si è ostinata a conquistare l’unico regno che l’uomo non è mai stato in grado di conquistare: il sole». È di un sogno che fatica a trasformarsi in realtà, di un’abnegazione che sfiora la follia, di una «visione» più forte e decisa degli inciampi della vita che parla L’inventore di Miguel Bonnefoy (traduzione di Francesca Bonomi, 66thand2nd, pp. 138, euro 16) che lo scrittore francese, cresciuto tra Parigi, Venezuela e Portogallo presenterà nell’ambito del Salerno Letteratura Festival – domani alle 21,30 al Museo diocesano con Raffaele Notaro – che si apre oggi. Una storia intensa, a tratti commovente, rischiarata dall’ironia e dalla magia di una scrittura che, come d’abitudine per Bonnefoy, guarda al latinoamerica e al suo portato di malia narrativa che indaga la vita e le opere di Mouchot, misconosciuto precursore delle ricerche sull’energia solare in un’epoca, la seconda metà dell’800, in cui il mondo viveva all’ombra del carbone. Dimenticato dalla storia, lo scienziato torna protagonista in questo libro affascinante, dove l’ostinazione febbrile della ricerca si fonde dolcemente con il gioco del romanzo per il tramite di una lingua che trasporta pian piano nella dimensione della speranza, della perdita, ma soprattutto del sogno.
Da dove nasce l’idea di raccontare una figura come quella di Augustin Mouchot, della cui esistenza, come scrive nelle prime pagine del libro, non si sono interessati «né i poeti, né i biografi, né gli accademici»?
Allo stesso modo in cui la scienza raggiunge spesso per caso le proprie scoperte, è per puro caso che mi sono imbattuto in questo personaggio incredibile. Ho fatto la sua conoscenza una sera, guardando un documentario sull’astrofisica, più precisamente un episodio della serie Cosmos dedicato alle ricerche sul sole. Ad un certo punto, il presentatore ha stilato la lista degli scienziati che hanno lavorato sull’energia solare (Archimede, Salomon de Caus, Horace-Bénédict de Saussure, Lavoisier, Buffon, Félix Trombe) e, tra due virgole, ha evocato anche un certo Augustin Mouchot, uno scienziato decisamente dimenticato che durante l’Esposizione Universale del 1878 era riuscito a produrre del ghiaccio attraverso il calore. Ho trovato quest’idea così bella, folle, meravigliosa e delirante che mi sono ripromesso di scavare un po’ nella storia «perduta» di quest’uomo. E quando l’ho fatto, ho incontrato un inventore senza interesse, ma dalla vita affascinante, un uomo che non sembrava certo predestinato a grandi cose e che, malgrado ciò, ne ha fatto di immense, un uomo pieno di ossimori, contraddizioni e paradossi. Insomma, un autentico personaggio da romanzo. Perché se è spesso il caso ad aiutare la scienza, questo accade anche per la letteratura.
Definisce Mouchot come un «guerriero triste» che fin da bambino ha lottato per sopravvivere alle malattie e alla sofferenza e che in seguito dovrà affrontare altre prove durissime. Dall’incontro con Napoleone III, alla presentazione della sua macchina all’Esposizione di Parigi, fino ai viaggi in Algeria alla «ricerca» del sole, sarà però protagonista anche di molte avventure. «L’inventore» gli restituisce quell’aura di leggenda di cui in vita non ha goduto?
Non ho certo la pretesa di credere che un libro possa far rinascere un’esistenza, ma voglio perlomeno immaginare che la letteratura sia in grado di riesumare dall’oblio un personaggio e illuminarne altrimenti la traiettoria. Tuttavia, nel caso di Mouchot ho provato a rendere in qualche modo universale la sua figura, concedendogli uno spessore più ampio, per non rinchiuderlo in un tempo, uno spazio, un luogo determinato – una sorta di camicia di forza -, insomma per sottrarlo all’ingiusta sorte di cui ha sofferto durante la sua vita. Così, anche se ha conosciuto un certo successo, ho cercato di dipingere il ritratto di un anti-eroe, nel senso di qualcuno che non presenta le caratteristiche dell’eroe classico: napoleonico, wagneriano, solare, nobile e coraggioso. Mouchot assomigliava a ciò che potremmo definire come un «eroe eccentrico», nel senso di un uomo dal profilo ordinario, piatto, prevedibile, rassegnato a una vita senza interessi che si ritrova proiettato in una situazione straordinaria. Ovviamente non ho inventato nulla: da Don Chisciotte in poi la storia della letteratura è disseminata di figure del genere.
Nel suo libro sembra prendere corpo un rapporto speciale tra «lo scrittore» e «l’inventore»: è forse l’idea di inseguire con ogni mezzo i propri sogni ad averla avvicinata alla personalità di Mouchot?
«Inventare» viene da «in venio», ciò che viene a te. Perciò, sì, mi sono sentito un po’ come un inventore nel senso che ho scelto di far mio questo personaggio, questa storia e questo destino che erano «venuti a me» per puro caso, e di costruire intorno a loro un nuovo territorio. Certo, ho dovuto inventare qualche breve passaggio della sua vita, ma sempre con verosimiglianza e rispetto. In questo libro è perciò presente una doppia invenzione: quella di Mouchot e la mia, in quanto autore. In un certo senso ho voluto umilmente associare la mia penna alla sua macchina solare. Sono il peggior giudice del mio lavoro: non posso dire se ho raggiunto o meno l’obiettivo. Ma credo che sia l’epoca di cui parlo che dovrebbe fare eco al libro, e non viceversa. Mouchot è stato davvero una fonte di ispirazione molto importante: perché era un artista del calore, ma anche per la sua grande lucidità. È solo attraverso questa lucidità che raggiunse ad un certo punto il momento splendido in cui, erede degli antichi saperi, si affrancò dalle vecchie conoscenze per conquistare nuove terre inesplorate. Una delicata percezione che è il risultato delle battaglie che l’umanità ha dovuto combattere per mutare i suoi arcaismi fino a raggiungere il suo pieno sviluppo. E anche se è accaduto che i lavori di Mouchot sono poi stati smentiti da altri, o che la sua figura è stata in parte cancellata dalla memoria collettiva, se i risultati a cui era giunto sembrano imprecisi o le sue conclusioni sbagliate, rimane comunque tutto il valore di quel primo slancio, la materia originaria, il fiume sotterraneo che non ha smesso di scorrere da quel momento.
Come già in «Eredità» (2021), e nei suoi libri precedenti, si ha l’impressione che malgrado in questo caso si tratti prima di tutto di un racconto biografico, la realtà si mescoli comunque con il fantastico, con quanto di magico contiene l’invenzione narrativa: in che modo ha intrecciato le ricerche d’archivio su Mouchot con questi elementi?
Ho messo molto zelo e impegno nell’intreccio tra la scrittura «bianca» degli archivi e quella «colorata» della magia. Ho dovuto impastare la materia della realtà, della fedeltà storica e ai fatti, con la massa informe e arbitraria della finzione, dell’invenzione, della stessa struttura narrativa. E questo ha richiesto un dosaggio in cui ho speso una parte enorme del tempo di scrittura del libro. Mi sembrava però che fosse necessario risalire la piattezza di questo linguaggio da registro con i salti e le colline del barocco, perché vengo da un territorio culturale (il Venezuela) dove l’esuberanza delle parole e la lucentezza del linguaggio sono profondamente radicate. Non so se, alla fine, il dosaggio risulta bilanciato. Non sta a me giudicare. So comunque che non si tratta solo di realizzare una bella storia o un buon personaggio, occorre anche scolpire, tagliare, scegliere, trattare, in un certo senso in un modo quasi indipendente dalla storia stessa. La fluidità della lingua era per me importante quanto la chiarezza della vicenda.
La storia che ha scelto di raccontare non potrebbe essere più attuale, visto che racconta l’ostinazione di un uomo nel ricercare una via alternativa, quella dell’energia solare, in un mondo dominato dal carbone, con le conseguenze che ancora oggi sono sotto gli occhi di tutti. Da questo punto di vista, la vicenda di Augustin Mouchot interroga il nostro presente?
Mouchot rappresenta le centinaia di scienziati e inventori, esploratori e pionieri che hanno tentato la fortuna nel bel mezzo della rivoluzione industriale e che hanno finito per cadere nell’oblio. C’è qualcosa di molto bello in queste figure spezzate, abbattute in pieno volo, la cui gloria è stata rubata a causa di mille piccoli inciampi. Se avesse inventato il fotovoltaico nell’Ottocento, si potrebbe dire che era stato un anticipatore. Ma ha costruito una macchina che non faceva che riscaldare l’acqua per produrre vapore e quindi azionare a sua volta un motore a vapore. Era perciò perfettamente inserito nel suo tempo. Anzi, sono quasi tentato di dire che era l’epoca stessa ad essere in anticipo rispetto a Mouchot, perché il petrolio e l’elettricità sono arrivati troppo presto, tanto da tagliargli in qualche modo l’erba sotto i piedi.
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