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Migrazioni dall’est, la sindrome italiana

Migrazioni dall’est, la sindrome italianaPh. Laura Salvinelli

Reportage Anni fa è stato identificato un nuovo tipo di depressione che colpisce le donne tornate in patria dopo anni di lavoro all’estero: il caso di chi torna dal nostro paese, soprattutto in Europa dell'est, raccontato attraverso la voce di due donne

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 20 febbraio 2021

«Bisognerebbe fare un monumento alla mamma migrante che parte per l’Italia con la valigia in mano e i bambini che le corrono appresso, perché quando siamo partite tante di noi non l’hanno detto ai figli, e questo è molto grave perché poi non li hanno visti per anni. Si tratta del sacrificio di una generazione di donne per il benessere delle loro famiglie, che poi spesso le ripudiano» dice Tatiana Nogailic.

Il numero di queste «mamme migranti» delle ex repubbliche sovietiche è enorme: in Italia i lavoratori domestici (badanti, baby sitter e colf, soprattutto donne) sono circa due milioni, fra i regolari – nel 2018 contribuenti all’Inps sono stati 859.233 – e gli irregolari stimati da Domina, l’Associazione Nazionale Famiglie Datori di Lavoro Domestico. E la loro situazione è talmente grave che nel 2005 due psichiatri ucraini di Ivano-Frankivs’k, Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych hanno identificato una nuova forma di depressione di cui si ammalano migliaia di donne rimpatriate dopo tanti anni di lavoro usurante in famiglie straniere, che comporta una radicale frattura identitaria e un affievolimento del senso della maternità vissuto in modo colpevole, che può spingere al suicidio: la «sindrome italiana».

L’altra faccia della sindrome è stata studiata in Romania: la depressione dei figli che sono stati lasciati a casa e che sono curati talvolta dai padri, ma più spesso da zie, nonne, vicine di casa, a volte da nessuno. Aumentano i casi di suicidio fra quelli che si chiamano «orfani bianchi» in Romania, «orfani sociali» in Moldova, «leftbehind» in Ucraina.

«Nel mio Paese sono soprattutto i maschi a togliersi la vita. I bambini si impiccano, le bambine si avvelenano» denuncia Tatiana, e aggiunge: «bisogna parlarne, perché nella Repubblica di Moldova la sindrome italiana è negata, e noi emigrati non contiamo niente, a parte che per le nostre rimesse, che producono il 35% del Pil, e quando si tratta di votare».

Tatiana Nogailic ha 47 anni, è stata commerciante, si è sposata, ha avuto un figlio e ha divorziato dal marito «scomparso» per un lustro in Russia, è venuta in Italia nel 2001, dove ha fatto la badante per tanti anni, e nel frattempo si è laureata in Scienze Sociali, ha preso vari master ed è diventata mediatrice interculturale e interprete, si è ricongiunta col figlio, ha aiutato diversi italiani a investire nella sua patria, lavora per vari progetti e svolge attività di volontariato per la sua comunità in Italia e nel Paese di origine. Nel 2004 ha fondato Assomoldave, di cui è presidente, la prima associazione della sua comunità in Italia. Ha pubblicato la guida Moldavi in Italia. Guida per l’orientamento e l’integrazione sociale dei moldavi in Italia, e la sua tesi è diventata un libro nella sua patria: Moldavi in Italia. La globalizzazione, effetti della migrazione e l’associazionismo della diaspora. I moldavi regolarmente soggiornanti in Italia, secondo il rapporto sulla presenza dei migranti del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 2019, sono 125.285, di cui 66,6% donne. «Secondo la nostra ambasciata dovremmo essere circa 350.000 in Italia.

In Moldova quando sono partita la popolazione era circa di 4.300.000 abitanti, secondo l’ultimo censimento del 2014 era scesa a meno di 3.000.000, ora dovrebbe essere ridotta a 2.500.000». Svitlana Kovalska è ucraina, ha 56 anni, è laureata in lingua e letteratura russa, è stata insegnante e preside, non ha figli, è divorziata, è venuta in Italia a Natale del ’99, ha lavorato in un bar e come badante, ha preso un master in Migrazione e tutela dei diritti dei migranti e in Migrazione, cultura e psicopatologia, lavora come mediatrice interculturale in ambito penitenziario e sanitario per aiutare non solo la sua comunità ma tutti gli stranieri. È la presidente dell’Associazione Donne Ucraine Lavoratrici, che fornisce assistenza per i documenti, il lavoro, la salute, i diritti, e insegna alle donne a usare Internet. Gli ucraini regolarmente soggiornanti in Italia secondo lo stesso rapporto del Ministero del lavoro e delle Politiche Sociali sono 234.058, di cui 78,8% donne. Gli irregolari, secondo Svitlana, sono stimati tra 500.000 e 1.000.000. Le ho intervistate sulla prima diaspora delle donne e sulla sindrome italiana perché ha ragione Tatiana, sicuramente bisogna parlarne.

Chi sono le «mamme migranti»?
(Tatiana) Siamo partite dal Paese più povero d’Europa perché la dissoluzione dell’Unione Sovietica ha portato al crollo di tutto il sistema socio-economico, ora conteso fra due bande di mafiosi, corrotto. Anche gli uomini hanno sofferto tanto, sono andati in Russia e molti si sono persi nell’alcolismo e hanno scordato le loro famiglie. Noi donne quando eravamo sovietiche avevamo tutte una professione e in più ci accollavamo tutto il lavoro domestico e la cura dei figli perché gli uomini erano maschilisti e non ci davano una mano in casa. Invece di perderci d’animo, ci siamo rimboccate le maniche e siamo venute in Italia, aiutandoci a vicenda. E con la nostra partenza è collassato anche il sistema famiglia. Io sono fortunata perché sono arrivata in un pulmino, ma molte, dopo aver pagato il visto anche 4.500 euro indebitandosi con gli usurai, sono arrivate a piedi, impaurite, disorientate e affamate, si sono nascoste sotto ai treni, si sono viste togliere i figli lungo la strada, sono state imprigionate e rimpatriate a forza. Siamo anelli della catena di cura in un vortice globale. Siamo qui ad accudire anziani e bambini e abbiamo lasciato i nostri dalla cura di altre donne. Lavoriamo per pagare i debiti della famiglia, gli studi, i matrimoni, gli appartamenti dei figli: una spirale da cui non si riesce a uscire. Credo che tra una decina d’anni ci sarà una migrazione di ritorno perché qui c’è lavoro solo per braccia forti e la pensione sociale non permette di vivere. Ma a casa non troveremo i nostri figli, che sono partiti per altri Paesi, soprattutto Canada, Usa, Germania, Inghilterra.

(Svitlana) La maggioranza delle donne è arrivata come me dal ’98-99 in poi. La loro età media è di 40 anni e anche se hanno marito e figli, vengono da sole. Sono tutte preparate e professionali, per lo più con istruzione medio-alta. Immagina un’ex direttrice di banca ridotta a assistere un’anziana. Ma peggio della discesa nella scala sociale è il confinamento in uno spazio limitato, con contatti sociali ridotti all’osso e tempo libero inesistente. La chiesa greco-cattolica è il nostro unico conforto. In Ucraina nel ’91 c’è stato il crollo economico e le madri sono emigrate per migliorare la vita delle loro famiglie. Eppure sono state giudicate male. Il presidente Leonid Kucma le ha accusate di essere «leggere», traditrici della patria e della famiglia: accuse ingiuste e vergognose. Le migranti partono con l’idea di star fuori per 1-2 anni ma possono tornare solo quando sono in regola, e passano gli anni. Soffrono sempre di nostalgia. Vivono in due mondi e due tempi. È molto difficile se non impossibile mantenere i rapporti affettivi a distanza. Quando tornano a casa spesso scoprono che i mariti sono spariti insieme ai soldi che hanno spedito a casa.

Alcune comprano appartamenti in cui non c’è posto per loro. C’è chi ha scoperto di essere stata dichiarata morta! Nel 2010 c’è stato un boom di ricongiungimenti, ma molti non sono riusciti. Le donne subiscono molte molestie sessuali. Le irregolari rischiano di essere ridotte in schiavitù. Anche se nella mia patria c’è ancora guerra – la Russia si oppone al progetto dell’Ucraina di entrare nella Nato – vengono riconosciuti come rifugiati politici solo quelli che provengono dalle zone in cui il conflitto è più forte, come Donetsk e Lugansk, ma non tutti gli altri, che sono pure in pericolo di vita.

Cos’è per voi la «sindrome italiana»?
(Svitlana) È la depressione conseguente alla rottura traumatica del rapporto affettivo tra madre e figlio, come il taglio di un secondo cordone ombelicale. Il figlio si sente tradito due volte: quando la madre l’ha lasciato e quando la ritrova in una situazione deludente, sia per la discesa sulla scala sociale, sia perché ha poco tempo per stare con lui. Si crea una spirale malata: la madre vive una vita di privazioni, si sente in colpa e si sacrifica sempre di più anche per compensare la sua assenza, mentre il figlio è sempre arrabbiato, e spesso spreca i soldi per offenderla. Molti figli diventano tossicodipendenti. Ma la sindrome non si chiama italiana perché qui veniamo trattate peggio che altrove. Gli italiani sono più accoglienti dei nordeuropei: qui c’è più sole nel cielo e anche nelle persone. Semplicemente, questo è il paese più «badantizzato» d’Europa sia perché è meno difficile entrare, sia perché c’è più offerta di lavoro di cura».

(Tatiana) È ansia e depressione e stress da lavoro di cura. Non per caso fu scoperta tre anni dopo la grande sanatoria del 2002, quando le prime donne rimpatriarono e iniziarono a mostrare lo stato di esaurimento in cui erano ridotte. Ma io vorrei denunciare anche un’altra emergenza sanitaria: secondo l’Aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica) il tumore all’utero, per mancata prevenzione e diagnosi tardive, sarebbe sei volte più frequente nelle donne immigrate rispetto alle donne italiane».

Vivete in Italia più o meno da 20 anni. Cos’è il Belpaese per voi e come vi tratta?
(Svitlana) Non sono stata delusa dall’Italia. Io ero pronta, avevo capito che dovevo ricominciare tutta la mia storia e ricostruire la mia identità daccapo. Ho lavorato, studiato e fatto tanto volontariato. Non c’è ancora una legge giusta sugli immigrati, almeno se tornassimo alla Turco-Napolitano e la perfezionassimo sarebbe un passo avanti. Adesso noi abbiamo perso protezione, la Bossi-Fini e il decreto sicurezza hanno peggiorato tutto. Le migrazioni ci sono sempre state e non si fermano. È normale che siamo sempre in movimento. Ma l’accoglienza deve essere pianificata. Un ragazzo mi ha detto che pensava che un centro d’accoglienza fosse un centro di benessere e poi si è trovato peggio che in carcere, dormendo per terra. Si devono fornire l’orientamento al lavoro, la lingua, storia e cultura del paese, le leggi e i diritti, la Costituzione.

(Tatiana) L’Italia per i moldavi è come l’America per gli italiani del XIX secolo. Il miglior modello di integrazione è in Canada, e in Germania e Nord Europa ci sono più soldi, ma gli italiani ci accolgono con più empatia, mentre negli altri paesi siamo più emarginati. Anche la lingua, il rumeno, ci avvicina: l’ho imparata in qualche mese, i bambini la parlano in due mesi. Sono cosciente dei problemi dell’Italia, ma le donne sono più emancipate e gli uomini meno maschilisti, alcolisti e violenti che nella mia patria.

Anche se è una domanda che richiederebbe un grande spazio tutto per sé, vorrei sapere se secondo voi le donne stavano meglio nell’Unione Sovietica o in questo periodo di crollo socio-economico e caos neo-liberista in cui per mantenere le famiglie sono costrette a emigrare e lasciare i figli.
(Svitlana) Nell’Urss c’erano tanti aspetti positivi. L’istruzione, la sanità, lo sport erano gratis per tutti. Noi donne eravamo considerate, potevamo scegliere che studi fare, c’era lavoro ed era possibile fare carriera. Ma la libertà era limitata per tutti. Ora ci sono più opportunità di svolgere tanti lavori, studiare, andare all’estero. Mia madre diceva che era disposta a vivere di pane e acqua pur di non a tornare indietro. Eppure ci sono anche tanti nostalgici.

(Tatiana) L’Unione Sovietica è rimpianta dagli oligarchi di allora e da tanti anziani, anche molte migranti di una certa età. I giovani, che non la conoscono, non ne vogliono manco sentir parlare. Io che viaggio in Europa non la rimpiango, anche se apprezzo tanti aspetti dell’organizzazione e la minor differenza fra le classi sociali. Ho amici e parenti che hanno avuto gli appartamenti in regalo dallo Stato in quanto giovani specialisti. Gli uomini che alzavano le mani sulle donne venivano messi a fare lavori socialmente utili per dieci giorni per strada, sotto gli occhi di tutti, per farli vergognare. Ma non poteva andare avanti, perché non eravamo tutti uguali. I nomenclatori avevano il caviale nel frigorifero, erano vestiti meglio, viaggiavano all’estero, andavano in vacanza sul Mar Nero. Ora la donna ha più indipendenza economica quindi maggior forza nel difendere i suoi diritti, come il divorzio. Io non mi ricordo divorzi quando ero piccola. Noi ragazze venivamo portavate dalla scuola a fare la visita ginecologica per controllare se eravamo vergini e per chi non lo era, se si veniva a sapere, erano guai. Ci furono anche delle ragazze che si avvelenarono.

Gli unici luoghi di aggregazione delle «mamme migranti» sono le stazioni dei pulmini, dove la domenica mattina portano grossi pacchi che spediscono a casa per 1,5 euro al chilo e le chiese greco-cattoliche o ortodosse. Nella stazione in vicolo di ponte Mammolo a Rebibbia c’è un recinto dove le donne ucraine attendono pazientemente di essere scelte dai datori di lavoro «come mucche da mungere» in base all’età e alla prestanza fisica. Mi sono ricordata delle parole di Svitlana: «immaginati un’ex direttrice di banca…». Ma anche se non fossero state direttrici di banche, semplicemente non è umano, e non mi sono sentita di fotografarle. Sia le stazioni che le chiese sono gestite da uomini.
Solo i preti greco-cattolici della cattedrale dei santi Sergio e Bacco degli ucraini e della basilica di santa Sofia mi hanno gentilmente accolta con la macchina fotografica. Lì le ho ritratte di spalle in rispetto della loro gran dignità.

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