Migranti: sommersi e abbandonati
La strage del canale di Sicilia Su 20 mila persone giunte in Italia, il 10% sono morte. Il procuratore Salvi «Triton crea problemi anche sul piano delle indagini»
La strage del canale di Sicilia Su 20 mila persone giunte in Italia, il 10% sono morte. Il procuratore Salvi «Triton crea problemi anche sul piano delle indagini»
Quel barcone era un sepolcro per vivi, con i due livelli inferiori adibiti alla «terza classe» dei migranti, quella riservata a chi ha i soldi per imbarcarsi ma non per garantirsi l’aria da respirare e l’acqua, privilegio degli occupanti dell’unico piano alto.
Giù, negli inferi, la poca acqua fornita agli assetati veniva miscelata con un po’ di gasolio, in modo da farsi passare la voglia di bere. Giù, dice il procuratore di Catania Giovanni Salvi, prima della partenza le porte sono state sprangate, perché nessuno doveva uscire, perché ogni movimento può mettere a rischio l’equilibrio dell’imbarcazione, che infatti è colata a picco all’alba di sabato scorso, quando i migranti in coperta si sono spostati tutti su una fiancata alla vista del container portoghese «King Jacob» giunto in loro soccorso dopo un sos lanciato con un telefono satellitare.
L’invito a mantenere la cautela sul numero dei morti, fatto ieri dal procuratore Salvi, non cambia le dimensioni della tragedia: 700 – come detto nell’immediatezza dei fatti – o 900 come ha riferito un superstite domenica sera, si tratta comunque di un’ecatombe.
Se quest’anno su 20 mila persone giunte in Italia, quasi 2mila (il 10%) sono morte, vengono i brividi a pensare cosa ancora potrà accadere. Lo scorso anno ne sono arrivate 170 mila in 12 mesi; nel 2015 le previsioni più ottimistiche ne stimano 250 mila.
Stavolta lo «spread» tra i vivi e i morti è impressionante: soltanto 28 sopravvissuti e tra loro anche due migranti che hanno raccontato di essersi «aggrappati ai morti per non finire in fondo»; mentre gridavano, aggiungono i soccorritori, «per attirare la nostra attenzione». I 28 superstiti sono arrivati a Catania nella tarda serata di ieri sulla nave Gregoretti della Guardia costiera, che in mattinata aveva fatto tappa a Malta per lasciare i 24 cadaveri che troveranno sepoltura a La Valletta.
Da noi non c’è più neanche posto per i morti, e mentre sono tante le parole in libertà, scarsissima è la libertà di parola, quella che dovrebbe inchiodare alle proprie responsabilità la ricca Europa, che facendo i conti della serva ha fatto in modo che la «costosa» e ben più efficace operazione Mare Nostrum (9 milioni al mese) fosse sostituita dalla più economica Triton (3 milioni al mese). È ancora il procuratore Salvi a parlare:
«Triton – spiega – crea problemi anche sul piano delle indagini, rispetto alla precedente operazione, e si basa fondamentalmente sulle navi mercantili», cioè sui natanti in navigazione nel Mediterraneo, precettati e dirottati sui «target» man mano individuati nelle varie aree. Non solo mercantili, ma anche pescherecci, come è accaduto alle cinque motonavi di Mazara del Vallo – marineria allo stremo per i sequestri e per la crisi che ha corroso l’economia locale – inviati sul luogo del naufragio.
Vincenzo Bonanno, comandante dell’«Antonino Sirrato», ha provato una grande delusione quando è giunto sul posto, alle quattro del mattino di sabato scorso, e ha trovato «solo giubbotti di salvataggio, vestiti, detriti d’ogni genere, una grande chiazza di gasolio e… morti. Nessuno da salvare, il mare ha inghiottito in fretta 900 persone, la popolazione di un paese». A questa gente, pronta a sacrificare il proprio pane e la propria vita per salvare i naufraghi, lo Stato non ha mai detto grazie: «Se salvi qualche migrante, dopo un paio d’anni qualcuno organizza una cerimonia e ti appuntano una medaglia sul petto. Mai un rimborso», dice l’armatore del «Sirrato» Piero Asaro.
Si fa economia e si fanno grandi proclami: «Arrestare gli scafisti è una priorità», dice ancora Renzi, dopo che all’alba di ieri la Dda di Palermo aveva fermato un gruppo di eritrei, etiopi, ivoriani e Ghanesi.
E in Calabria è finito in manette uno scafista – riconosciuto perché privo di una gamba – che lo scorso 12 aprile, per una manovra sbagliata, aveva provocato davanti alle coste libiche un naufragio costato la vita a 350 persone (150 i sopravvissuti). La notizia dei 350 morti era stata data dai media senza troppa enfasi, a sottolineare che anche l’informazione sta facendo il callo ai morti e rivedendo i propri parametri.
A Palermo la Dda ritiene di aver fatto un colpo grosso. Tra le 24 persone coinvolte nell’indagine (10 sfuggiti alla cattura) ci sono anche l’etiope Ermias Ghermay (latitante dal luglio scorso) e l’eritreo Medhane Yehdego Redae, ritenuti tra i più importanti trafficanti di migranti che operano su quella che viene chiamata la «rotta libica». L’organizzazione, con un cospicuo supplemento in denaro, gestisce le fughe dei migranti dai centri di accoglienza italiani verso altri paesi Ue, soprattutto Norvegia, Germania e Svezia. Si stima che 5mila persone si sono rivolte nel solo 2014 al gruppo criminale e alcuni hanno pagato con un metodo fiduciario usato nel mondo arabo, che si chiama «Hawala» e che non lascia tracce, messo a punto parecchi secoli fa per raggirare il diritto romano.
Ghermay è accusato del naufragio avvenuto il 3 ottobre 2013 davanti a Lampedusa, in cui persero la vita 366 migranti e per il quale è stato condannato a 20 anni uno scafista. Quella strage di un anno e mezzo fa impressionò il mondo intero, tanto che la data del 3 ottobre è stata scelta come Giornata per commemorare i migranti vittime di naufragi. 366 era una sorta di Linea Maginot, una cifra non superabile per la devastante dimensione della tragedia. Oggi i morti sono quasi il triplo e le parole di chi ha il compito di decidere le misure per arrestare questo genocidio restano le stesse e suonano sempre più beffarde: mai più.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento