Michele ed Elsa, lungo i bordi della memoria inceppata
NARRATIVA «A un garofano fuggito fu dato il mio nome» , l'ultimo romanzo di Savina Dolores Massa edito per Il Maestrale
NARRATIVA «A un garofano fuggito fu dato il mio nome» , l'ultimo romanzo di Savina Dolores Massa edito per Il Maestrale
Visitare la dimenticanza, nella sua stoffa umbratile e usurata, consiste nel sondare territori che al silenzio preferiscono il livido colore delle parole. È un lessico che si connette a energie sottili dell’esistente quello che Savina Dolores Massa utilizza nel suo ultimo romanzo A un garofano fuggito fu dato il mio nome (Il Maestrale, pp. 229, euro 16). Già nella poetica del titolo, la scrittrice sarda conferma la confidenza da sempre avuta con l’esperienza dell’umana e comune fragilità. La dimenticanza, intesa come narrazione della discontinuità – ma anche come atto del dimenticare che è l’incedere afasico di chi claudica accanto al proprio sé di un tempo – è quella di Michele. In seguito a una disgrazia è lui a non possedere più memoria né a breve né a lungo termine. Ogni giorno come fosse il primo. L’ultimo. Lo stesso o il mai avvenuto. Prima lo svenimento, il morso di un tumore, il cranio aperto, il coma e infine il risveglio di una creatura diversa. Ma perdere pezzi di sé, insieme a un cervello che non è più quello di una volta, non significa scordare; Savina Dolores Massa, al suo quinto romanzo (a cui si aggiunge una raccolta di racconti e una silloge poetica, tutti editi dal Maestrale di Nuoro) ci informa di due fughe ben distinte: l’uscita dalla mente non corrisponde all’uscita dal cuore.
IN QUESTA IMPOSSIBILITÀ di scordare abita soprattutto Elsa, amica e amata storica, piedi piccoli e scalzi smarrisce e calpesta le vie di quartiere, conosce i presagi e si presenta alla porta di Michele dopo anni in cui ad abbandonarlo sono stati quasi tutti tranne la propria madre. In quel pomeriggio di primavera gli dice di essere una logopedista inviata per aiutarlo, entrando così in contatto con la quotidianità di un uomo costretto a vivere leggendo il proprio nome appeso alle mura domestiche. Non possiede ricordi della propria figlia Matilde; non sa cosa sia «amore», di cui in compenso ha una lunga disamina etimologica anch’essa affissa alle pareti di casa; non sa quasi niente che non sia contenuto in quei brevi precetti appuntati su biglietti sparsi qua e là. Non ha perso il lavoro, seppure sia stato demansionato da un ruolo di responsabilità all’esecuzione di fotocopie.
Il «mondo sempre indietro» di Michele è diverso da quello «offeso» di Alessio, protagonista di un altro straordinario romanzo, di Elio Vittorini, in cui Il garofano rosso è la parabola piuttosto lineare di un giovane che scopre se stesso e il suo posto nella storia più grande. Il fiore offertoci da Savina Dolores Massa è invece frutto di un apprendistato che deflagra con secca e chirurgica precisione, là dove per descrivere meglio la precarietà – insieme alla insipienza politica del presente – vengono appuntati nomi splendenti: c’è Marx, sia pure per nominare un gatto o Gramsci. I fiori capaci di svettare non sono tuttavia quelli della rivoluzione, bensì di una rivolta viscerale, catasta deperibile su gambi all’apparenza coriacei, in cui i corpi sprofondano nel mutamento durante notti disastrose. Fantasmi, come quelli tanto amati da Anna Maria Ortese, o personagge fuori dall’ordinario come quelle che aleggiano tra le pagine di Francesca Sanvitale (in particolare nelle Tre favole dell’ansia e dell’ombra); mentre avvertono l’imponderabile vogliono intanto toccare l’anima – di oggetti come di animali. Sono presenze incantate, vale a dire dotate di grazia e di inciampo, al pari del tempo stupefatto di Michele.
Altrettanto impensate sono le tane dell’infanzia che disintegrano la mistica del cervello – quella stanza pulita e misurabile dalla razionalità occidentale in cui niente è perfetto bensì tutto ha del misterioso. Sono il simbolico, quelle tane, in cui gravitano creature simili a «un’assenza magicamente nuda» – visibili negli ospedali come in tante altre anticamere del dolore di cui non si ha cognizione precisa. Di cui nessuno sa fornire rassicuranti teoremi ma solo provvisorie manutenzioni. Che hanno pochissimo di tecnico e quantificabile.
ELSA – anche detta Sale e Lesa – è la rappresentazione che il nome sa fuggire al proprio destino. Dalla soglia di un allarme alla conseguenza di uno spavento, si viene destati dalla regolarità di una esistenza e si comincia a percorrere l’interruzione del trauma, sia esso di varia natura, arrivando a una invenzione necessaria. Decide così di agire, Elsa, con le ferite possedute – senza orlo, come la perdita, stilettate lunghe come le strade di Oristano percorse giornalmente. Sceglie di fare ritorno a un nido mai stato così incerto, la sua relazione con Michele – arrogandosi il privilegio di riscrivergli la memoria. Ogni incontro è un nugolo emotivo di vertebre che diventano incandescenti, di un primitivo e antico senso di riconoscersi intimi e viventi, anche quando a questa astrazione che è «la vita» – per tacere della «coscienza» – non si dà la traiettoria di una costruzione appresa capace di essere ripetuta ma la minuscola grazia di esistere ancora. All’ordine impostogli da chi cerca di insegnargli come ci si comporta, Elsa offre a Michele il desiderio ambivalente di riempire il vuoto per trasformarlo in un posto in cui seminare – sia ciò che manca a lui sia l’interezza di se stessa. La pratica del disamore, la fatica di un errore troppo vecchio, l’abbraccio di una comunità che talvolta espelle e rifiuta: sono solo alcuni dei dispositivi che la scrittura di Savina Dolores Massa mette in scena come inquieto antidoto alla solitudine. C’è però un’alleanza mormorante, al fondo di ogni parola della scrittrice, è trafitta, come l’impotenza di mettere in salvo chi amiamo. Ed è anche primordiale, come un’origine capace di disfarsi e rigenerarsi.
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