Nel libro piacevolmente illustrato La grammatica dei tessuti, edito da Gribaudo, storia di fibre tessili, si parla prima di tutto di odori che raccontano di un tessuto più della vista e che come diceva Borges, rivelano all’occorrenza, la sua falsità: la pelle vera, ad esempio, la si riconosce dall’odore caratteristico che i materiali sintetici o vegetali non hanno. L’odore di un capo di abbigliamento può dirla abbastanza lunga sui trattamenti nei cicli di lavorazione, e sui residui di alcalinità e acidità in una stoffa.

Olfatto come apripista di una storia in cui a prendersi la scena sono i colori e le forme degli abiti in cui i tessuti sono forgiati. Una trama che si intreccia, è il caso di dirlo, con le vicende della moda, un comparto di cui si fa esperienza eminentemente visiva, e che tra febbraio e marzo ha imperversato nelle cronache italiche: fiere delle calzature e della pelle, fashion week, e mille occasioni di ribalta pop, da San Remo in poi, in cui il packaging umano ha prevalso su altri aspetti.

Il telaio
Il libro lo ha scritto Michela Finaurini, che è marchigiana, fatto casuale ma che dà alcuni spunti. Parla molto di tessitrici di destini, delle donne di un passato storico e mitologico che non possono sfuggire alla postazione presso il telaio. Così Aracne, Penelope, le Parche, divinità norrene, cinesi e giapponesi, madri navajo. Per sempre al telaio rimane, grazie a Leopardi, Silvia la cui man veloce percorrea la faticosa tela, nella Recanati dentro il distretto marchigiano della moda e del tessile che oggi lamenta la carenza di orlatrici e artigiane del saper fare a mano; di lì vengono i molti contoterzisti autori di buona parte degli indumenti sulle passerelle milanesi e delle celeberrime scarpe. Made in Marche quelle che il sardo, matericissimo, Antonio Marras abbina ad abiti che racchiudono tutto il campionario dei tessuti presi in esame dal libro, con corredo di rimandi etimologici e storici: denim, loden, organza, pizzo, tartan, velluto (a coste, devorè, soprarizzo), broccato sardo. Una cornucopia di pezze preziose assemblate con genio che sembra citare i soggetti di Carlo Crivelli, pittore quattrocentesco di squilibrio libertà e fantasia, marchigiano d’adozione, sorprendentemente capace di riprodurre broccati allucciolati, manti di velluto, luccichio delle trame d’oro, lavorazione dei motivi double face; disegni e consistenza di tappeti orientali che hanno preso il suo nome (una mostra alla Pinacoteca di Brera nel 2010 è stata dedicata proprio al tessile nell’opera di Crivelli tra Marche e Veneto).

Filatura
Finaurini, artista oltre che textile creative director specializzata in ricerca di nuovi materiali, esamina nel testo i modi della filatura ( quella a mano è ancora realizzata seguendo la tecnica antica, con la ruota che rimanda a Berte e Belle Addormentate), le modalità di tintura, di stampa e soprattutto racconta approfonditamente l’origine delle fibre da torcere. Le distingue in naturali (vegetali e animali), artificiali (prodotte a partire da fibre già presenti in natura trasformate chimicamente, come la viscosa) e sintetiche (prodotte con processi di sintesi complessi, come il nylon). Tra le naturali in primis appaiono lana e lino, un cambio di vocali con dentro un mondo. La prima, fibra animale per eccellenza, ha molte varianti speciali, come il cashmere ricavato dalla pettinatura del sottogola delle capre di Kashmir, Tibet e Mongolia, e un paio di primati: annovera la tipologia più esclusiva al mondo di fibra tessile, la vigogna, poiché il camelide che la fornisce produce solo 250 grammi di pelo ogni due anni; ed è 100% sostenibile, velocemente degradabile in terra e in mare, efficace come fertilizzante. Benefico per i terreni anche il lino, coltivato da Egizi, Sumeri, Babilonesi e Fenici e la sua lavorazione del tutto rispettosa dell’ambiente.

La questione sostenibilità affiora spesso nel discorso tessile moda, la cui produzione è energivora e notoriamente impattante sulla natura; un capitolo del testo è dedicato alle nuove fibre più rispettose dell’ambiente: la fibra di mais, il seacell derivante dall’alga bruna, che ha azione benefica sulla pelle (un farmaco da indossare in pratica), il circolarissimo craybon ricavato da gusci di crostacei scarti della lavorazione alimentare mescolato con cellulosa di faggio ed eucalipto. Poi ci sono i revival, i riveduti e corretti come il Lanital, ottenuto dalla caseina, già messo a punto a fine Seconda Guerra Mondiale dal chimico Antonio Ferretti, la seta di soia già brevettata da Henry Ford ma che prevedeva allora impiego di sostanze molto tossiche.

Esistono tessuti derivati dal cocco (l’unica fonte vegetale a mettere a disposizione il frutto per l’estrazione di una fibra) e dalle foglie dell’ananas; dal micelio, la massa di filamenti intrecciati del corpo vegetativo dei funghi, dalla ginestra (che i Greci usavano per il sartiame), dall’ortica (che fornisce una fibra simile a quella di lino e canapa), dai fiori di loto e dalla cellulosa delle arance. E se ancora la scala industriale non è in grado di soddisfare la produzione di fibre così eco friendly per una vendita a prezzi anch’essi friendly la loro ricerca o la riscoperta dice qualcosa di questi tempi dove l’unica soluzione sarebbe non produrre e percorrere la via del second hand che pure vive un momento di discreto successo.

Negli Anni Settanta Roland Barthes nel suo Sistema Moda diceva che attraverso la moda la società si mette in mostra e comunica ciò che pensa del mondo, e, si potrebbe aggiungere, tiene conto di necessità, insegue virtù talvolta compensatorie. E sempre lui, il grande semiologo francese, parlando di abiti e della loro comunicazione, individua figure retoriche dell’immagine (di moda) facendo interagire nel discorso sul vestiario gli aspetti visivi e quelli linguistici.

Fa bene dunque Michela Finaurini a parlare di grammatica dei tessuti che di fatto si esprimono con una lingua mobile, con parole e nomi che cambiano significato nel tempo: il caso del «pied de poule» che nasce per tenere calde le gambe dei pastori scozzesi e finisce nel packaging di Miss Dior (del resto, come si diceva in premessa, tessuti e odori vanno a braccetto); o del «principe di Galles» inventato perché un gruppo di inglesi trasferitosi in Scozia non poteva usare il tartan (appannaggio dei clan locali e personalizzato per ogni famiglia di spicco delle Highlands) ma poi finito per rivestire, grazie a Ralph Lauren, le star americane. C’è il fascinoso bisso; si chiamano così oggi tessuti pregiati e leggeri in cotone o lino adatti al ricamo, ma il bisso originale nasce come fibra ricavata dai secreti di un mollusco, la Pinna Nobilis.

In Sardegna ci sono comunità di artigiani ancora capaci di lavorarlo, ma dal 1992 il bivalve è protetto e la raccolta vietata. «Ponente, Levante, Maestro e Grecale. Prendete la mia anima e buttatela nel fondale. Che sia la mia vita per essere, pregare e tessere» è l’invocazione preghiera prima della raccolta del filamento tramandata da una delle ultime conoscitrici della procedura di pesca e lavorazione. Parole dove la tessitura assurge a specifica dell’esistenza e il fondale luogo dove buttare la propria essenza, e fa rabbrividire pensando ai naufragi mediterranei di questo tempo; il bisso non sarà un caso lo cita anche Vernes in Ventimila leghe sotto i mari.