Come i suoi diafani sultani e faraoni, si lascia coccolare in questi giorni dal sole e dalla frutta esotica del Sud. «Soggiorno troppo breve per parlare del Paese dove ora mi trovo, votato a mille trasformazioni. È popolato al momento per il 70% da gente sotto i 30 anni. Le donne sono fantasmi neri neri neri. Non posso dire di esserne ispirato, ma mi dicono che diminuiranno». Michel Ocelot risponde al telefono da Djeddah, in Arabia saudita, città di transito sulle rive del Mar Rosso per i pellegrini della Mecca, suo attuale approdo nel tour promozionale di due mesi per il nuovo film. Le Pharaon, le sauvage et la princesse, in prima italiana il 15 al Sotto18 di Torino, nominato come miglior film d’animazione ai prossimi Lumières (che avevano premiato nel 2019 Dilili à Paris insieme al Lucca Film Festival), gli è già valso il Cristal d’honneur anche per l’insieme della sua opera allo scorso Festival d’Annecy. Lontano da Parigi proprio nel momento in cui la città festeggia i cartoons al Forum des Halles con il Carrefour de l’Animation, Ocelot, 79 anni, segue comunque le mosse del suo nono lungometraggio e medita nuove imprese: «Conosco bene Torino e il Museo Egizio. Sarei felicissimo se il Sotto18 organizzasse una presentazione del primo episodio – Le Pharaon – al Museo Egizio, com’è avvenuto a Parigi al Louvre, che l’ha coprodotto».

Come cerca o fabbrica le storie dei suoi film?
Ogni storia ha la sua storia. Le fonti sono multiple. Nel nuovo lungometraggio, l’episodio egizio Le Pharaon è nato dai miei incontri al Louvre con il direttore del Département des Antiquités Egyptiennes. Le Sauvage viene da una leggenda d’Auvergne raccolta dallo scrittore Henri Pourrat (i racconti popolari sono una grande sorgente d’idee). La storia turca La Princesse non è che una commedia che gioca con temi noti. Al contrario, film come Azur & Asmar o Dilili à Paris sono mie invenzioni a partire da temi importanti.
Ricorrono nel film un cantiere e una narratrice in tuta: invito alla ricostruzione, dopo la pandemia?
Quello del cantiere e della narratrice in tuta di lavoro è stato il mio primo disegno la prima settimana di reclusione: di fronte a un Paese immobilizzato, che perde forza, volevo incitare a uscire dall’annientamento e a ricostruire. È stata la mia prima reazione. Un monito alla Francia. Ma anche a tutti gli altri Paesi. Tutti i Paesi del pianeta hanno vissuto lo stesso confinamento totale, un periodo inimmaginabile. Il primo e il secondo episodio sono anche un invito a rinunciare alla guerra, trovando forme nuove di convivenza.

Le sovvenzioni hanno richiesto stavolta qualche acrobazia. Come mai, dopo tutti i successi, anche commerciali, dei suoi film?
Si vede che non valgo più niente per i produttori. Ma con un po’ di furbizia si può riuscire a gestire bene anche il poco che si riceve.

Ha già in testa nuovi progetti?
Una grande serie tv L’Europa della fiaba: ogni Paese ha la sua produzione, la sua lingua, le sue storie. Mi piacerebbe raccontare ora l’Europa attraverso le sue fiabe. Ma prima vorrei tornare al trittico cinematografico, aperto stavolta da una delle duecento Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare e trascritte dai vari dialetti da Italo Calvino nel 1956: è un racconto ambientato nel vostro Quattrocento, Fantaghirò, persona bella.

E il piccolo Kirikou? Continua a essere programmato, tra gli altri, alla Cinémathèque de Paris. Omaggi che la vedono presente?
Non mi faccio particolarmente coinvolgere in questi «omaggi». Vedo che Kirikou è radioattivo, mi ha oltrepassato. Ma continuo a vederne gli effetti, a ricevere soddisfazioni. I bambini delle prime proiezioni di Kirikou e di Princes et Princesses (che la Cineteca di Bologna ha appena distribuito al cinema e in dvd), diventati ora adulti, vengono a ringraziarmi, ancora e ancora, con un’emozione che non avrei mai immaginato. E, naturalmente, anch’io resto commosso.

Nessun sequel?
Altri vorrebbero impossessarsi del mio personaggio, per fargli vivere nuove avventure, ma io mi oppongo: Kirikou, c’est moi. Dunque, niente Kirikou senza di me.