Michel Jean, nel dialogo della comunità Innu
GEOGRAFIE Intervista con lo scrittore e giornalista nato ad Alma, in Québec, a proposito di «Kukum» (Marcos y Marcos). Domenica l’autore sarà a Milano, ospite nell’ambito di BookCity per presentare il suo ultimo romanzo
GEOGRAFIE Intervista con lo scrittore e giornalista nato ad Alma, in Québec, a proposito di «Kukum» (Marcos y Marcos). Domenica l’autore sarà a Milano, ospite nell’ambito di BookCity per presentare il suo ultimo romanzo
Kukum è il titolo del libro uscito per Marcos y Marcos (pp. 232, euro 18) ma anche il nome che Michel Jean, l’autore, usava per chiamare la sua bisnonna Almanda. Tradotto da Sara Giuliani e illustrato da Andrea drBestia Cavallini, il testo racconta la storia della sua vita ma anche quella di una comunità di Innu – una della Premières Nations (Prime Nazioni) del Québec.
Almanda, di origine irlandese, nacque nel 1882 e rimasta orfana fu allevata in Québec da una coppia di agricoltori, fino al giorno in cui incontrò Thomas, giovane autoctono Innu. All’età di quindici anni, scegliendo di lasciare il suo breve passato alle spalle, decide di seguire Thomas in un viaggio – temporale e geografico – che durerà l’intero corso della sua vita.
Attraverso Nitassinan, parola che in innu-aimun designa il territorio tradizionale occupato dagli Innu e che si situa nel nord-est del Nord America, la narratrice ci racconta in prima persona gli eventi marcanti di cui è testimone. Scopriamo i modi e lo stile di vita di questa comunità nomade che vive in una interrelazione rispettosa con l’ambiente circostante: questa speciale simbiosi si costruisce nel ritmo lento e cadenzato delle stagioni che passano, quello che accompagna il nomadismo che caratterizza l’esistenza di questo popolo. Dall’accampamento invernale nel territorio di caccia si ritorna, in primavera, per vendere le pelli alla base commerciale della Compagnia dell’immensa baia di Hudson.
Michel Jean, con uno stile narrativo asciutto e allo stesso tempo puntellato di incantati spicchi descrittivi, dà voce ad Almanda mentre risale il fiume Péribonka ogni autunno verso le montagne, dove caccia durante l’inverno per tornare a Pointe Bleue e restarci tutta l’estate. Secondo i fili di quella memoria che cuce la trama del presente con l’ordito del passato, la vita di Almanda e della famiglia Siméon ci viene raccontata secondo un eloquio sgombero degli inganni romantici di certo esotismo, anche per portare in superficie gli sconvolgimenti vissuti dalle comunità autoctone in Québec e, più in generale, in Canada.
Quello di Almanda e Thomas è un incontro di cuori ma anche di culture che si vorrebbero inconciliabili. Eppure Almanda viene accolta nel clan dei Siméon secondo l’ospitalità che – come nel vincolo sacro presso gli antichi Greci – si doveva allo straniero. E ancor di più poiché Almanda non è solo di passaggio, ma resterà. Cosa significa accoglienza in un contesto di colonizzazione?
In passato, le persone viaggiavano attraverso il Paese. Le frontiere non erano né definite né ermetiche come sono quelle dei nostri Paesi. Non era quindi insolito l’arrivo di stranieri. L’accoglienza era vista come qualcosa di reciproco e quindi una forma di dovere, simile al legame sacro dei Greci. Va aggiunto che le popolazioni autoctone hanno una tradizione di accoglienza e persino di adozione. Non era raro che gli stranieri venissero «adottati» da una comunità.
In Kukum vediamo che il clan dei Siméon accetta Almanda e la integra al gruppo. Questo è in linea con lo spirito di accoglienza che era presente. Ma allo stesso tempo, più tardi, quando Jeannette, la figlia di Almanda e Thomas, lascia la famiglia per sposare un bianco, il padre disapprova il matrimonio e rifiuta di partecipare. Va detto però che a quel punto le devastazioni della colonizzazione avevano lasciato un segno amaro nel cuore delle persone.
Le descrizioni dei luoghi attraversati colmano di bellezza le pagine del suo libro. Ad oggi Nitassinam resta così bello?
Nitassinan rimane bello. Lo sarà sempre. Hanno tagliato gli alberi, imbrigliato i fiumi, ma la terra è ancora lì e anche noi. Tuttavia, le devastazioni dell’industrializzazione sono terribili. Innanzitutto, l’ampiezza dei trattamenti a taglio raso è sconcertante. Immagino che gli italiani pensino al Canada come a un Paese coperto da una vasta foresta boreale. La realtà è che la maggior parte di essa è stata distrutta. In questo momento stiamo raggiungendo una sorta di punto di rottura.
I villaggi e le città create intorno all’industria del legname hanno bisogno di una pioggia di alberi, e il Québec sta abbattendo gli alberi più velocemente di quanto li stia piantando, alberi che richiedono decenni per crescere. Lo dimostra la scandalosa scomparsa del caribù (o renna della tundra), animale sacro agli Innu ed emblematico del Québec. Secondo i dati del governo, le popolazioni di diversi branchi che vivono nelle regioni della Côte-Nord e Saguenay-Lac-Saint-Jean si attestano a 803 esemplari. E il calo è sotto la soglia di autosufficienza.
In sintesi, i caribù stanno scomparendo e i governi si rifiutano di prendere le misure necessarie per arrestarne l’estinzione, perché ciò metterebbe a rischio i posti di lavoro nell’industria del legno. E poi c’è quello che è stato fatto ai grandi fiumi che sono stati interrotti dalle dighe. Tutto ciò è lontano e quindi a Montreal o nella città di Québec si possono vedere solo i benefici, ma bisognerebbe andare sul posto per capire fino a che punto si è arrivati a stravolgere la natura.
Nelle pagine iniziali del suo libro, quelle che precedono la storia della sua bisnonna, Kukum in innu-aimun, troviamo una cartina del territorio attorno al lago Pekuakami e una citazione da una poesia di Joséphine Bacon a proposito delle origini. La colonizzazione ha puntato alla cancellazione dell’identità autoctona in Québec, cosa resta oggi?
Siamo ancora qui. Prendiamo sempre di più la parola. E la gente ci ascolta. Il successo di un romanzo come Kukum sarebbe stato impossibile in Québec dieci anni fa. La gente non sarebbe stata interessata. Ma le cose stanno cambiando. Bisogna rendersi conto che le Prime Nazioni sono occultate dalla storia nazionale. A scuola, la storia inizia nei nostri libri con l’arrivo di Cristoforo Colombo nel 1492 e di Jacques Cartier in Canada nel 1534.
Prima di allora non c’è nulla. La storia del Canada è la storia «eroica» della colonizzazione. Ma la gente vive intorno a Pekuakami da 5000 anni. Il francese è l’unica lingua nazionale riconosciuta dal governo del Québec. Le undici lingue autoctone sono equiparate allo spagnolo, all’inglese e all’hindi. Molte di queste lingue, tra cui l’innu-aimun, sono gravemente minacciate. L’Abenaki non è più parlato in Québec. È una perdita culturale, un dramma.
Almanda insieme alla fatica delle lunghe marce attraverso Nitassinan impara l’innu-aimun e – pur essendo donna – anche la caccia e le regole di un rapporto che per gli Innu non è basato sulla dominazione dell’umano sull’animale ma piuttosto sul sacrificio dell’animale a cui si deve rispetto.
Nelle nostre società occidentali ci viene insegnato che l’uomo si trova in cima alla piramide della vita. In cima ci sono gli uomini, i mammiferi, poi i rettili, i pesci, le piante e così via. Il genio umano utilizza le risorse della Terra per creare la civiltà. Esiste una gerarchia di queste civiltà in base a quella che consideriamo la loro «evoluzione». Queste società si basano sulla crescita. C’è sempre bisogno di più risorse per più persone. Basta guardare l’impatto del calo della natalità in molti Paesi sull’economia.
Gli Innu vedono il mondo in modo diverso. Invece di seguire la freccia del progresso, per noi l’universo è un cerchio. Tutte le specie vivono in esso e un cacciatore che uccide un alce crede che l’alce accetti morire per permettergli di vivere.
A loro volta, gli Innu gli sono grati e gli rendono omaggio. Gli esseri umani non sono più importanti di qualsiasi altro animale. Esiste un equilibrio che permette a tutti di vivere. La piramide ha portato al disboscamento delle foreste e allo svuotamento dei laghi e dei fiumi… Nel cerchio non è mai mancato il pesce…
Nella seconda metà del suo libro, attraverso le parole della protagonista, la voce narrante fa allusione ai traumi intergenerazionali che hanno coinvolto gli Innu – ma anche più in generale le Prime Nazioni. Che ne è stato dei bambini strappati alle loro famiglie e rinchiusi nei collegi religiosi in Québec?
La legge federale che ha creato le scuole residenziali affermava nero su bianco che lo scopo di questi pensionati per gli autoctoni era «uccidere l’Indiano nel bambino». In parole povere, l’obiettivo era quello di cancellare le culture delle Prime Nazioni. 150.000 bambini furono mandati con la forza in questi istituti, l’ultimo dei quali chiuse solo nel 1996. Più di 4.000 non sono mai tornati e sono scomparsi. 100 anni di sforzi di acculturazione hanno lasciano il segno. Lo si può vedere nelle percentuali più alte di abbandono scolastico, nell’abuso di droghe e alcol, nei tassi più alti di incarcerazione.
Ma ci sono segnali di ottimismo. Ad esempio, sempre più autoctoni vanno all’università, la fierezza è ancora forte. Per noi la letteratura è una forma di presa di parola. Come ha detto Joséphine Bacon: «Se non raccontiamo le nostre storie, chi lo farà al nostro posto?». Allo stesso tempo, vedo una grande apertura da parte della popolazione. E questo mi conforta. Le cose stanno iniziando a cambiare e credo che il cambiamento stia avvenendo più velocemente tra la gente che nella classe politica. Per me va bene così. Le rivoluzioni iniziano sempre dal basso, non dall’alto.
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