Come ogni rivoluzione, fu lo stato di necessità a scatenarla: un soggetto abbozzato dall’amico Truffaut (cioè un ritaglio di giornale con la storia di un bandito in fuga e la sua bella), pochissimo denaro, una troupe di esordienti tra cui il fotografo Raoul Coutard promosso sul campo cineoperatore, infine due attori che non avrebbero potuto essere più dispari, un ex pugile che biascica in argot, Jean-Paul Belmondo, e la silfide americana dai capelli biondi a caschetto, Jean Seberg, che pare uscita da un romanzo di Françoise Sagan e infatti ha appena interpretato la versione cinematografica di Bonjour tristesse per la regia di Otto Preminger.

Nasce così, allo stadio della improbabilità, il gesto che cambia lo statuto dell’immagine cinematografica con A bout de souffle, film girato in biancoenero a Parigi (estate del ’59) che al cospetto del regista, Jean-Luc Godard, l’improvvisato direttore della fotografia definisce «un semplice reportage su dei personaggi». Godard è l’ultima penna dei «Cahiers du Cinéma» a esordire nella regia, può dirsi pure lui un allievo di André Bazin (senza esserne un figlioccio come Truffaut), ama il cinema americano di genere ma non soggiace a pregiudiziali né stilistiche né ideologiche e, anzi, il futuro maoista al momento è sospettabile di inclinazioni destrorse.
Pari allo scrittore che ignora cosa accadrà nella riga successiva a quella che sta scrivendo, Godard batte i suoi ciak assecondando una improvvisazione che non soltanto lascia liberi gli attori ma permette alle immagini in sequenza un respiro, una modulazione persino sbadata ed infinitamente naturale. Buona parte di A bout de souffle, che dovrebbe essere un film d’azione, si svolge in una angusta camera dell’Hôtel de Suède, a Saint-Germain des-Prés, dove i due protagonisti Michel e Patricia si lasciano vivere tra il letto, la finestra e il bagno perdendosi nella più banale conversazione e nei gesti della nuda quotidianità: è il momento in cui meglio si intuisce come per Godard non sia tanto il cinema a mobilitare l’immagine quanto, viceversa, l’immagine a lievitare prendendo luce e movimento in sé stessa. Del resto è difficile cogliere nel film la metafisica del piano-sequenza che era stata di Bazin e nemmeno vi è riscontrabile un montaggio scandito o musicale nei termini di Eisenstein (quello che i puristi e/o i formalisti diranno «specifico filmico»), perché il regista monta a strappi il materiale girato, aggiunge il sonoro solo in fase di postproduzione, incolla gli spezzoni in moviola senza rispettare la grammatica dei raccordi e taglia la pellicola con i gesti repentini del jump-cut e quick-cut: dirà che per rispettare i canonici novanta minuti, dopo le intemperanze del produttore si era visto costretto a pescare immagini nel mucchio e a stralciarle qua e là per abbassare il minutaggio e nel frattempo accelerare il ritmo di un film i cui asincroni sono scanditi dal jazz di un grande e allora giovanissimo pianista ebreo-algerino, Martial Solal.

Ricostruendo l’intera biografia del film, di tutto questo tratta l’utile e accurata monografia di Ivelise Perniola, Godard: Fino all’ultimo respiro (Carocci editore, pp. 118, € 13.00), divisa in capitoli che trattano via via il contesto storico-culturale dove prende corpo il film, la poetica dell’esordiente Godard, gli elementi specifici dell’opera e la storia della sua ricezione. Riguardo al tema cruciale, il linguaggio, osserva Perniola: «A Godard non interessa il montaggio metaforico, almeno nella prima fase del suo percorso autoriale, quanto piuttosto l’innesco emotivo, sensoriale e concettuale che l’immagine, che è giusto un’immagine e nulla di più o di meno, è in grado di provocare in chi la guarda».

Una immagine che può apparire sbagliata (quando per esempio Michel guarda in macchina mentre sta guidando), casuale come lo sguardo dei passanti che si voltano mentre Patricia strilla l’Herald Tribune su un controviale degli Champs Elysées, ma si tratta comunque di cinema allo stato sorgivo, un cinema che torna inopinatamente a sprigionarsi dalla lunga stagnazione, in Francia come altrove, nei generi codificati. D’altronde in una intervista del 1985 (ora nel complessivo Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema, a cura di Orazio Leogrande, minimum fax 2007) Godard poteva ancora proclamare che il suo cinema giovanile non aveva altro soggetto «che il cinema stesso e il suo modo di trattare le cose». Ed è esattamente il cinema che egli deduce dalla meditazione sui maestri, fra gli altri Renoir (che ai suoi occhi rappresenta la fiducia, l’apertura alla ricchezza del mondo), Roberto Rossellini, emblema socratico per l’intera redazione dei «Cahiers», e infine il più prossimo, Jean-Pierre Melville, demiurgo di un noir mai visto prima, che in A bout de souffle ha una piccola parte di carattere autoriflessivo e metalinguistico, pure se un simile cameo era stato pensato nientemeno per Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore prediletto, ma sembra che l’orco di Meudon, diffidente, si sia subito negato.

Se dunque l’azione di Godard è in tutto libertaria, non può che esserlo anche la gestione degli attori, in questo caso attanti, del suo cinema perché Michel e Patricia vivono nella identica maniera in cui il regista gira il proprio film, esplorano la realtà piuttosto che abitarla, si inoltrano in essa senza certezza alcuna (Michel è un fuggiasco, Patricia la donna della indecisione) quasi che una forza misteriosa, una vera e propria coazione, li trascinasse fino a perderli. Qui Perniola evidenzia, opportunamente, che il film è pensato per così dire en situation sotto l’influsso allora dilagante della filosofia di Sartre, il cui motto celeberrimo afferma per l’appunto che gli esseri umani sono condannati a essere liberi. (Fu Susan Sontag a scrivere che il cinema godardiano non è un cinema sulle idee bensì delle idee in uno dei saggi più smaglianti di Contro l’interpretazione – 1966 – che il volume di Perniola singolarmente non menziona in bibliografia così come il libro pionieristico di un maestro della critica militante, Adelio Ferrero, la cui monografia – Godard tra ‘avanguardia’ e ‘rivoluzione’, Palumbo 1974 – uscì in contemporanea con quella ormai canonica di Alberto Farassino, Godard, Il Castoro).

È certo che per il regista francese fare cinema era l’unico modo di conoscere la realtà e, al riguardo, il regista Emidio Greco, in un indimenticabile seminario sul montaggio tenuto a Falconara Marittima nel 2004, trattò in parallelo il lavoro di Godard e Antonioni parlando di «rivoluzione», tout court: ne trasse la conclusione, porgendola con il suo sorriso ironicamente accennato, che i due maestri avevano in comune un nuovo senso della realtà obiettiva e, per quanto ciò sembrasse paradossale per Jean-Luc Godard, il totale rifiuto della soggettività.