Aveva appena compiuto 94 anni lo scorso 10 dicembre Michael Snow, scomparso ieri nella sua Toronto. Musicista, scultore, fotografo ma soprattutto cineasta, questo incredibile personaggio – alquanto ignorato in Italia dal mondo dell’arte – rimarrà uno dei grandi maestri del cinema sperimentale, autore di due capolavori quali Wavelenght (1967) e La Région Centrale (1971).

Amico di Jonas Mekas, Snow ha vissuto negli anni ’60 a New York partecipando a pieno alla stagione del New American Cinema. Tecnologicamente curioso, sempre in grado di rinnovarsi, fin dai primi anni ’70 Snow ha sperimentato l’ologramma o ha ideato geniali procedimenti e dispositivi come il braccio meccanico programmato elettronicamente su cui ha montato la cinepresa per realizzare le panoramiche a 360° gradi di un desertico paesaggio canadese ne La Région Centrale. Questa sorta di macchina-scultura è poi diventata un’installazione video dal titolo De La ed è visibile alla National Gallery of Canada a Ottawa.

Il suo ultimo film, Cityscape (2019), ideato per il formato IMAX, adotta lo stesso procedimento di La Région Centrale ma applicandolo alla skyline urbana.

Michael Snow, foto di Craig Boiko

NEL RIPERCORRERE tutta la sua filmografia, a partire da quel primo cortometraggio (di animazione) A to Z (1956) fino ai più recenti lavori come Reverberlin (2006) e Puccini Conservato (2008), ci si rende conto della incredibile varietà dei suoi esperimenti, del fatto che non amava ripetersi.

Alcuni di questi film sono strutturalisti e decisamente astratti, come Back and Forth (1969), panoramiche ossessive destra/sinistra, alto/basso di un’aula, o Seated Figures (1988), carrellate di differenti texture stradali filmate da un automezzo in piano ravvicinato; altri più complessi, articolati e «figurativi», con risvolti narrativi: pensiamo a Rameau’s Nephew by Diderot… (1974), della durata di 4 ore e mezza che rappresenta forse il suo maggior lavoro sul rapporto tra immagine e suono, oppure Presents (1980-81) e To Lavoisier who Died in The Reign of Terror (1991).

Quasi tutti girati in 16mm, Snow ha poi utilizzato l’immagine elettronica, sia per le sue installazioni, sia per un suo lungometraggio Corpus Callosum (2002). In questo sorprendente lavoro non solo Snow si misura con le possibilità della post-produzione, ma mette in scena i disturbi neuronali creati dalle lesioni di questo sistema di fibre che collega i due emisferi telencefalici (il corpo calloso, appunto) e le ripercussioni sia sulle azioni dei personaggi, sia sulla struttura stessa delle immagini.

Quando creo qualcosa che mi piace, spero che il piacere possa essere condiviso. Tuttavia, non comincio cercando di essere apprezzato o di successo

Il suo film più significativo ed emblematico resta però Wavelenght: storia di una lenta e inesorabile zoomata che si realizza in un lungo lasso di tempo (un giorno e una notte sintetizzato in 40 minuti), all’interno di un loft. Mentre il campo si restringe gradualmente – dal totale della stanza fino alla fotografia appesa alla parete di fronte, che riproduce le acque del mare – e con esso lo sguardo dello spettatore, parte in campo e parte fuori campo, si odono dei suoni e hanno luogo alcuni eventi enigmatici.

L’immagine filmica è sottoposta ad una serie di variazioni luminose e cromatiche, accompagnate da un suono intenso e ossessivo (un’onda sinusoidale).

Snow mette in scena – attraverso due livelli principali che scorrono parallelamente – lo spazio della realtà e quello della rappresentazione. Wavelenght è un film sul potere dello sguardo assoluto che rifiuta di raccontarci lo spazio della storia, mostrandoci solo lo spazio geometrico e vettoriale.

L’ESTETICA di Snow – che mette al centro il concetto di serialità e di sequenza – assume forme sempre diverse. C’è lo Snow musicista, pianista e creatore di suoni al sintetizzatore, in cui fonde jazz e musica classica, musica elettronica e concreta. Lo Snow artista visuale che crea e/o trasforma oggetti, concepisce sculture, gioca a replicare all’infinito una stessa figura, come fosse una sorta di logotipo (le sue famose Walking Women create per l’Expo di Montreal del ’67) inserendole (e fotografandole) in contesti sempre diversi: sagome che interferiscono nel paesaggio urbano e si relazionano con i passanti, ponendosi al tempo stesso come metafore di un tipo di serialità filmica. L

o Snow fotografo, che slitta verso il concettuale o la meta-fotografia (pensiamo a una delle sue opere più conosciute e originali come Authorization del 1969, poliautoritratto per successiva accumulazione e sedimentazione).

Lo Snow «installatore», che lavora sulle strutture minimali, creando dispositivi oggettuali per la visione, con l’ausilio di specchi deformanti, cornici, vetri trasparenti, ecc. Il documentario Michael Snow Up Close (1994) di Jim Shedden racconta molto sinteticamente l’attività multiforme dell’artista canadese.

NOVANTENNE instancabile più o meno come l’amico Mekas, negli ultimi anni Snow aveva moltiplicato i suoi impegni in giro per il mondo, realizzando una delle più importanti mostre della sua carriera, Michael Snow Photo-Centric, presso il Philadelphia Museum of Art, ma anche pubblicando volumi, come il bellissimo Michael Snow. Sequences. A History of His Art, edito nel 2015 dalla casa editrice Poligrafa di Barcelona.

Estimatore di filmmaker canadesi di altre generazioni come Elder o Maddin e attento osservatore del panorama contemporaneo, in una nostra conversazione di alcuni anni fa ci aveva detto: «Credo che l’influenza del New American Cinema resti molto forte. È sorprendente il fatto che molti giovani cineasti lavorino ancora oggi in 16mm. È vero che i film di Brakhage, Sharits e Frampton sono sempre in mezzo a noi, ma Ernie Gehr, Ken Jacobs e James Benning continuano a creare nuove opere che sono dello stesso livello qualitativo delle opere realizzate in quegli anni».