Mi voleva Hitchcock. Nella sua cucina
L'inedito Alida Valli racconta la sua esperienza hollywoodiana con il regista, cuoco horror
L'inedito Alida Valli racconta la sua esperienza hollywoodiana con il regista, cuoco horror
Alfred Hitchcock! Il mio primo regista in Usa, nel 1947, con The Paradine Case! Una delizia d’amico, un ‘pezzo unico’ di Hollywood. Mi aveva ordinato di chiamarlo, confidenzialmente, Hitch, la prima volta che mi ha invitato a casa sua per una cena con la moglie Alma e la figlia Patricia. E lui mi avrebbe chiamato, semplicemente, Valli. Un segno di amicizia reciproca e, insieme, un prezioso lasciapassare alla sua cucina, dove si sarebbe esibito nei suoi show di esclusiva e inquietante gastronomia. Inquietante, sì. Come ripensare alla sfida suprema tra un palato italiano e le sue ‘invenzioni’ culinarie, del tutto immangiabili, tipo i suoi celebrati spaghetti stracotti, galleggianti nella tomato sauce?
La cucina era il regno di Hitchcock. Subito dopo il cinema. O forse, subito prima. Un locale molto molto ampio. E fornito di tutto. Uno straordinario catalogo dal vivo di ogni minimo accessorio cui un cuoco, professionista o, soprattutto, dilettante, non potrebbe mai rinunciare. Faceva uscire enormi pezzi di carne di manzo dal locale frigorifero attiguo, che s’intravedeva da una solida porta di vetro a tenuta stagna. E, una volta arrivata la carne nell’arena, eccolo in azione, nel suo one man show preferito : maestro di taglio e ritaglio, con affilatissimi coltelli di macellaio, addobbato d’immacolata ‘parananza’, forse in ricordo o in omaggio al padre droghiere a Londra.
In cucina era un grande attore, esperto cesellatore, al tocco di lame, di carni da tagliare e sagomare. Uno spadaccino dei fornelli, come mi ha dimostrato con orgoglio la prima volta che mi ha invitato a seguirlo nella preparazione, meticolosissima, di un roast beef. Aveva steso la carne in una casseruola smaltata, controllato la temperatura del forno – gigantesco, alla Hänsel e Gretel – e l’aveva fatta scivolare sul piano inferiore : perché, sul superiore, stava per giungere a epilogo un pudding di sua esclusiva preparazione, che ci avrebbe poi servito come contorno.
Hitchcock, il mio amico Hitch, è sempre rimasto molto british, anche in America, dove sono stata ospite di qualche sua residenza, da quella, magnifica, di Bel Air a Los Angeles alla casa di campagna, a due passi da San Francisco, cui badava un contadino di origine italiana, un certo Berto. Come tutti gli inglesi, preferiva la carne al pesce : in particolare, gli arrosti, di beef o di turkey. Mi ricordo ancora, a una favolosa festa di Thanksgiving, un suo – da lui celebrato – speziatissimo ‘tacchino farcito con riso’.
A essere sincera, di Hitchcock preferisco di gran lunga i film ai piatti, che erano spesso i suoi veri horror. Sono stata spettatrice molte volte entusiasta del suo cinema, sono stata troppe volte vittima della sua cucina. Impossibile da mandar giù. Credo di essere stata una delle più pazienti cavie delle sue più stravaganti invenzioni culinarie, cui obbligava noi fortunati (!) ‘assaggiatori’ o, come affettuosamente ci soprannominava, Old Bean (vecchio fagiolo). Perché, va detto a definitiva distruzione del mito Hitch maestro di cucina, adorava pure cucinare i fagioli messicani. Fagioli neri. Da mischiare con carne tritata e chili. Pensava, con queste ricette esotiche che si gustano spesso in California, ma anche a Londra, di impressionare gli amici, ormai assuefatti alla cucina di routine hollywoodiana. Pensava. Piatti di pensiero, non di cucina.
Anche in questo è sempre rimasto molto british.
* Dall’intervista di Mario Serenellini nel 1989 al Prix International Lumière alla carriera
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