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Metti un riff alla francese

Metti un riff alla franceseI francesi Magma

Storie/Venti anni in cui si plasma e si consolida un pop rock nazionale, con lo yé-yé a fare da spartiacque Il ruolo di Elvis che ispira una sfilza di artisti e cambia le regole del gioco e da lì fino alle note visionarie dei Magma. Musicisti che non sono mai una copia acritica di quanto avviene negli Usa o a Londra, ma capaci di grande autoironia

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 28 settembre 2024

La scomparsa di Françoise Hardy, l’11 giugno scorso, priva la storia della canzone di una grande protagonista del pop rock francese – Tous les garçons et les filles, Les temps de l’amour, L’amour s’en va – in quello stile tutto parigino che viene subito chiamato yé-yé all’interno della cosiddetta variété (l’equivalente della nostra musica leggera o della popular music angloamericana), dove però, anche nei confronti del resto d’Europa, i legami con il sound Usa e britannico appaiono più saldi e duraturi, già a cominciare dal nome: yé-yé è la translitterazione scritta dell’inglese yeah (letteralmente «sì» in maniera enfatica, gioiosa, insistente) che è l’intercalare, a mo’ di refrain o controcanto, di tanti motivetti lanciati già alla fine degli anni Cinquanta, sebbene vengano in mente due successi «tardivi» come l’italiano Ventiquattromila baci (Adriano Celentano) e il britannico She Loves You (Beatles) dove l’uso di yeah yeah «si spreca».

IN PARALLELO
Lo yé-yé francese fa da spartiacque, all’incirca a metà percorso, all’intensa storia del rock francese durante più o meno un ventennio: fenomeno autoctono – esportato di rado all’estero tranne alcuni Paesi europei, Italia in primis – cantato nella propria lingua (e spesso tradotto appunto in italiano, talvolta in spagnolo e tedesco), lo stile yé-yé curiosamente viaggia in parallelo alla improvvisata fioritura (erede solo in parte delle novità primo-novecentesche del cabaret, del café-chantant, del valse musette) di chansonniers e auteurs-compositeurs (Charles Trenet, Gilbert Bécaud, Charles Aznavour, Leo Ferré, George Brassens, Jean Ferrat, George Brassens, Barbara, George Moustaki) accompagnata spesso da vigorosi interpreti (Edith Piaf, Juliette Gréco, Yves Montand, Mouloudij) che in fondo simboleggiano la Parigi esistenzialista e da sempre all’avanguardia, così come viene tramandata dai poeti maledetti e dai pittori impressionisti ancora nel Dopoguerra e appena prima del Sessantotto.

Va subito notato che fra gli artisti definibili «cantautori» e i poco più giovani esponenti dello yé-yé (e del rock and roll) francese non scorre buon sangue: si viaggia insomma su binari paralleli, ignorandosi vicendevolmente, senza effettive collaborazioni, tranne qualche intento parodistico; unico personaggio ad agire trasversalmente sarà Serge Gainsbourg, prima solo autore per svariati generi e poi chansonnier sui generis, unico a mescolarsi alle culture straniere, anche precursore con album reggae come Aux armes et caetera (1979) – con la dissacrante versione giamaicana dell’inno nazionale (La Marsigliese) – ad anticipare quella che presto verrà definita world music.

In Francia tutto nasce prima dello yé-yé, già nel 1956, quando Hardy appena dodicenne, comincia timidamente ad ascoltare alla radio la voce e il rock di Elvis Presley, la cui immagine arriva di lì a poco sui grandi schermi con il semi-autobiografico Le rock du bagne (Jailhouse rock e in Italia Il delinquente del rock and roll) in parallelo all’inizio della nouvelle vague: Ascenseur pour l’échaufaud di Louis Malle è di qualche mese più tardi e la colonna sonora viene addirittura firmata da Miles Davis con un quintetto franco-americano a dimostrazione che il jazz è sempre più una musica francese, come insegna vent’anni prima il chitarrista Django Reinhardt, che ispira in quegli anni il jazzman Henri Crolla. Dunque in quel 1956, dove il brano seminale Rock around the Clock di Bill Haley & The Comets è numero uno in Francia, alla pari di tutti i paesi anglofoni, la nazione, tra il boom demografico e quello economico, nonostante le guerre d’Indocina e d’Algeria, sembra aprirsi alle novità esterofile, in contrasto con un apparato mediatico tradizionalista che, nel 1957 non crede al rock’n’roll quale fenomeno duraturo, benché proprio le tournée di Haley o di Freddie Bell and the Bellboys registrino fra i teenager il tutto esaurito. Sono in molti a fare paragoni con l’exploit effimero del cha cha cha e del calypso di qualche anno prima, quando nella chanson impera l’esotismo dei vocalist francesi di origine mediterranea dal turco Dario Moreno allo spagnolo Luis Mariano, dal greco George Guétary all’italiana Dalida, unica a transitare indenne per il successivo trentennio.

MONDO ADULTO
Come ovunque a osteggiare il pop rock d’Oltreatlantico sono gli adulti: alla luce delle vendite straordinarie di 45 giri come Only You (Platters), Diana (Paul Anka) o When (Kalin Twins), Music-Hall, unica rivista a grande tiratura sulla variété casalinga parla apertamente di «crisi della canzone francese» anche perché tra le maggiori hit autoctone figura la moderna cover Docteur Miracle di Annie Cordy di David Seville.

Tuttavia il rock francese delle origini non è mai una fotocopia acritica, perché resta spesso avvinghiato a una vena (auto)-ironica da sempre attiva nello spettacolo tricouleur, ragion per cui emergono ottime parafrasi al rock medesimo, spesso fortunate come l’ep (1958) comprendente tre canzoni interpretate da Magali Noël – in Italia nota quale attrice per il ruolo di Gradisca nell’Amarcord felliniano – sensuale quanto basta in Alhambra rock e persino aggressiva in Fais-mois mal Johnny, non a caso scritta dal geniale Boris Vian, «come al solito» in anticipo sui tempi. Trombettista, jazzman, paroliere, cabarettista, inventore, discografico, poeta, romanziere, cantautore, drammaturgo, critico, giornalista, Vian (1920-1959) risulta altresì autore, per i testi surreali, dei primi rock francesi, composti dal bandleader Michel Legrand (che all’epoca lavora addirittura con Miles Davis) e interpretati sotto lo pseudonimo di Henri Cording da un giovane antillese Henri Salvador, un comico, attore, entertainer, notissimo anche in Italia, dalla carriera lunghissima, tra pop, swing, latinoamericana, fino al brano Le jardin d’hiver (2000). In fondo nemmeno loro, con una cultura jazz di base, sono convinti dell’estetica rock e finiscono per ridurlo a parodia, un po’ come farà il produttore Sacha Distel – anch’egli nel jazz quale cantante/chitarrista famoso in seguito come uno dei tanti mariti di Brigitte Bardot – con Mackac (al secolo Jean-Baptiste Reilles) già batterista jazz e titolare del primo importante album di rock francese, salvo poi tornare, a fine carriera, nei ranghi dello swing-gitan con l’Orchestra di Joe Privat.

Anticipatore dello yé-yé, il rock and roll – in seguito confluito nel twist – a Parigi e dintorni riesce a diventare anche una cosa seria, esagitata e trasgressiva, con il gruppo Les Chaussettes noires – il cui vocalist Eddy Mitchell esordirà presto in proprio e anche nel cinema – e con due giovani, in particolare Richard Anthony (reclutato al Festival di Sanremo nel 1968 con Nessuno di voi) e soprattutto Johnny Hallyday, unanimemente ritenuto da critica e pubblico il simbolo del rock sotto la tour Eiffel: mantiene una continuità stilistica in grado di aggiornare il proprio lessico creativo, senza mai rinunciare a un atteggiamento provocatorio a una natura selvaggia che, persino un regista d’avanguardia come Jean-Luc Godard, saprà plasmare nel cult movie Detective (1985).

STAGIONE INTENSA
Hallyday in Italia vive una stagione intensa sul finire dei Sixties, culminata con la partecipazione alla Mostra internazionale di musica leggera a Venezia dove per molti risulta il vincitore morale, anche se si piazza solo decimo (a vincere gli americani Vanilla Fudge con la psichedelica Some Velvet Morning): ma l’intensa performance della blueseggiante Quanto t’amo (Que je t’aime) in diretta tv buca lo schermo.

Johnny, in era yé-yé, da noi è già famoso per altre due ragioni: da un lato è il marito di Sylvie Vartan, prima rock girl francese in ordine d’apparizione, anche se maggiormente propensa al twist, pur debuttando all’insegna del r’n’b con The Loco-motion (cover di Little Eva/Goffin-King) e Est-ce que tu le sais (What’d I Say) di Ray Charles e diventando in seguito una vedette alla Rai; dall’altro è traduttore e interprete di molti rock anche italiani tra cui 24000 baisers (Ventiquattromila baci) di Adriano Celentano, il quale, solo cinque anni dopo, potrà vantare un altro remake grazie a La maison où j’ai grandi (Il ragazzo della via Gluck) della citata Hardy. Hallyday, a metà Sessanta, sembra incarnare la versione francese della lotta «all british» tra i rocker (ribelli r’n’r col ciuffo, i jeans e il giubbotto di cuoio nero) e i mods («modernisti» ben vestiti e amanti del Nothern Soul e del r&b). In una canzone Cheveaux longues et idées courtes, un blues quasi gridato, Johnny si scaglia contro i capelloni, così come in parallelo fanno quelli del Clan Celentano da Don Backy con Serenata allo stesso Adriano con Tre passi avanti: la vittima dell’invettiva è il corso Antoine (Antonio Muraccioli) che, dallo strepitoso esordio con l’album Les élucubrations d’Antoine, molto rollingstoniano, nella title track prende in giro lo stesso Hallyday.

LE DIVAGAZIONI
Il brano, a sua volta tradotto in italiano – grazie all’aiuto di Herbert Pagani, altro singolare franco-italiano dalle poliedriche virtù artistiche – diventa Le divagazioni di Antoine, esprimendo musicalmente un tratto yé-yé abbinato con il folk-rock alla Bob Dylan; quest’ultimo ispira al cantautore Gian Pieretti il brano anarcoide Pietre, portato a Sanremo nel 1967 in coppia proprio con Antoine che ne farà il maggior successo della propria altalenante carriera.

Antoine non è l’unico francese a partecipare al Festival, anche se il solo dallo spirito rock goliardico e dal maggior numero di presenze (sei in tutto, da La tramontana a Nocciolino), il doppio dei malgasci (ma francofoni) Les Surfs e dell’italofrancese Nino Ferrer (divenuto anche entertainer televisivo). Poi, nel giro di dieci anni, per una sola volta, partecipano nomi grossi di svariati generi: Distel, Anthony, Jean-François Michel, Les Compagnons de la Chanson, Les Charlots e una misconosciuta Patricia Carli che vince la manifestazione con una Non ho l’età (Je suis à toi) bilingue, benché i riconoscimenti vadano tutti alla debuttante italiana Gigliola Cinquetti.

A fronte di un Antoine sempre più da vaudeville si trova invece un Ferrer vicino al soul e impegnato con il pezzo Je veux être noir a sostenere le lotte dei diritti civili negli Stati Uniti: anche tradotto conserva un mood antirazzista quasi come una dichiarazione d’amore verso la musica afroamericana, tanto che, circa vent’anni dopo, una band romana tra jazz e r’n’b assumerà come nome Vorrei La Pelle Nera, lanciando quale vocalist una giovanissima Giorgia. E si trova pure il pendant romantico e cantautoriale, sia pur, al contempo molto rock e yé-yé: il terzo giovane francese a salire in alto nelle classifiche nostrane a 45 giri è Michel Polnareff che intona La poupée qui fait non (Una bambolina che fa no no no, successo anche per i Quelli, futura Premiata Forneria Marconi) modellata su una folk ballad dall’indiscutibile french touch, mentre i palati più esigenti gli preferiscono la coeva struggente Love Me, Please Love Me. Da allora il rock francese vive in Italia solo di riflesso: evocato da Michel Delpech nella mielosa Wight Is Wight (in italiano L’isola di Wight, un trionfo diviso a metà fra lui e i Dik Dik), è altresì sublimato dai citati Charlots, da box office al cinema con filmetti comici, tra satira antimilitarista (Cinque matti al servizio di leva) e polemica indiretta contro il vecchio umorismo alla Louis de Funès (all’epoca molto apprezzato pure dagli spettatori italiani).

Dopo il Sessantotto – che in Francia ha la voce operaia della cantautrice Colette Magny, assieme a Giorgio Gaslini nell’album militante Il fiume furore in presa diretta dentro il movimento contestatario – si forma anche in Francia un rock sperimentale, underground, tanto ideologico quanto libertario: diversamente dallo yé-yé, avrà solo protagonisti per il «consumo» locale, nonostante i tentativi di qualche coraggioso distributore di importarne alcuni dischi per far conoscere ai giovani della Penisola – ormai inclini al prog europeo, all’hard rock britannico, ai «cosmici» tedeschi, alla West Coast Usa – alcune band di spicco come Martin Circus, Ange, Triangle, Ame Son, Ribeiro/Alpes, presenti talvolta dal vivo in alcune rassegne alternative.

Diversi risultano invece i casi – dal discreto seguito, nonché esaltati dai due mensili musicali nostrani di sinistra, Muzak e Gong – riguardanti cinque nomi fondamentali nella storia del rock francese: i Magma, sestetto decisamente avanguardista, tra sinfonismo e fantascienza, con i testi cantati in kobaïen, lingua di loro invenzione; i Gong una sorta di comune freak anglofrancese che fa la spola tra i due lati della Manica proponendo la fusion della Canterbury School filtrata da un mix di dada, patafisica e Frank Zappa; il nizzardo Marcel Dadi, primo in Europa a introdurre lo stile finger picking del chitarrismo acustico dal country statunitense (ma suonando brani propri sovente in chiave ragtime); il bretone Alan Stivell che all’arpa passa da ancestrali tradizioni a inventare il cosiddetto rock celtico con numerosissimi proseliti tra il neo folk locale (i gruppi Malicorne, La Bamboche, Mélusine, Lyonesse); la rocker Mama Béa Tékielski, italo-polacca di Avignone che nel 1978 con l’album Ballade pour un bébé robot ottiene il premio per il «miglior disco straniero in Italia», quasi a chiudere un cerchio francese tutto femminile, generato, un quindicennio prima, all’ippodromo Breda (Padova), con il Premio diapason per la musica alla compianta, allora splendida ventenne, Françoise Hardy.

Dunque, come c’è una British invasion negli Stati Uniti (e poi in tutto il mondo occidentale) da parte dei gruppi beat inglesi, così all’inizio dei «favolosi» Sixties in Italia esiste una calata di ragazze/i francesi che, per un intero lustro, contendono il primato di «cantanti yé-yé» alle nostre Rita Pavone, Patty Pravo, Caterina Caselli e ai pendant maschili Gianni Morandi, Little Tony, Bobby Solo: a far da apripista è la citata Hardy che resta il fenomeno più eclatante in termini quantitativi, nonché l’artista meno inquadrabile nel rock pop delle demoiselles parisiennes, in un panorama sonoro comunque variegato dove prevalgono – anche a livello di popolarità italiana – i summenzionati cantautori (Aznavour, Ferré, Moustaki e Serge Reggiani a registrare nella nostra lingua) accanto a un divismo maschile esteticamente ibrido che spazia dal radical chic Serge Gainsbourg al beat elegante Jacques Dutronc, dall’italo-belga Adamo al franco-italiano Cloclo (Claude François), universalmente noto per due canzoni; da un lato le parole a Comme d’habitude di Jacques Revaux, divenuta My Way per intercessione di Paul Anka che la offre a Frank Sinatra in grado di farne la canzone più iconica della sua immensa attività fra dischi e concerti: ripresa persino da Elvis Presley e «massacrata» da Sid Vicious anche in un videoclip memorabile. Dall’altro testo e musica di Le téléphone pleure che tutti erroneamente attribuiscono a Modugno protagonista invece della cover Piange il telefono.

CONCORRENZA INTERNA
La concorrenza interna viene dunque sbaragliata da una dozzina di bellissime adolescenti blbg – «bon chic bon genre», espressione intraducibile, connotante un’eleganza sobria e al contempo sbarazzina – che sociologicamente manifesta la joie de vivre da liceale stufe dei precetti degli adulti e desiderose di poter godere della massima libertà comportamentale: non a caso l’amore, i sentimenti, l’eros, i sogni (accanto al ballo, alle festicciole, al divertimento, alle amiche) sono i temi prevalenti di canzonette beat immediate dal semplice, ordinato, meccanismo comunicativo; aggiungendo la presenza maliziosa e al contempo il fresco sex-appeal, oltre una moda prêt-à-porter esibita anche in tivù o in palcoscenico, gli arrangiamenti musicali sono in grado di shakerare voci personalizzate, melodie facili, romanticismo sbarazzino, ritmi moderni, charme parigino; ed ecco pronta la french invasion di Sylvie Vartan, France Gall, Marie Laforêt, Sheila, Catherine Spaak, Eva, Chantal Goya, Aline, Jacqueline (e Totò Savio), Dorine, Jonathan & Michelle: un totale di cinquanta 45 giri e cinque album (contro i diciotto singoli e i quattro album della sola Hardy) con qualche successo rilevante – Bang Bang, Come un ragazzo, L’abito non fa il beatnik, Giochi proibiti, Il successo, L’esercito del surf, La nostra primavera, Manchester e Liverpool, Quelli della mia età – consumato durante la lunga turbolenta estate degli anni Sessanta.

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