Nella poesia di Gabriella Sica si sta a proprio agio come in un luogo amico, in un tempo gentile, che se pure mutato mantiene inalterata la sua anima più antica, la sua vocazione più autentica, quella per la quale un posto diventa, talvolta, un «posto del cuore». Ciò accade perché la poesia di Gabriella Sica crea genealogie, intime, personali, ma anche pubbliche, politiche. E lo va facendo dall’inizio della sua ricca e felice seminagione, dalle figure-personaggi di Felicetta (la mamma che pedala di verso in verso sulla rima «bicicletta» incontro alla vita) e Pietro (figlio adorato dal volto «più che umano»), alla natìa Viterbo e alla Roma degli amici poeti scomparsi (Paolo Prestigiacomo, Bertolucci, Bellezza e gli altri), passando per gli eventi e le tragedie della storia, le reliquie del tempo sapientemente distribuite tra le pagine de Le lacrime delle cose, un vero e proprio «porto sepolto».

È UNA POESIA, quella di Sica, che fa della parola semplice, chiara, «petrarchesca» (tanto cara ai poeti delle riviste Braci e Prato Pagano, quest’ultima fondata e diretta da Gabriella) lo strumento di accesso ai grandi e piccoli misteri della vita di ognuno, in grado di spaziare con la stessa felice partecipazione dalle oche ai cieli, dalle città alla natura, fino – come nel bellissimo ultimo libro Tu io e Montale a cena, pubblicato dall’editore Interno Poesia (pp. 104, euro 10) – alla casa di un poeta amico, Valentino Zeichen; quella baracca nella quale visse fino alla morte e che oggi ancora esiste, a poche decine di metri da Villa Borghese e alle pendici di Villa Strohl Fern.

Tu io e Montale a cena s’inserisce nella tradizione dei libri di poesia a nucleo o tema unico, più esattamente in quella dei «canzonieri in morte»; eppure proprio Petrarca ci ha già mostrato quanta vita può agitarsi, venire a galla, spingere e scaturire da questo genere di opere se viva è l’intelligenza emotiva dello sguardo poetico da cui scaturisce. Così questo libro di liriche, completato da due prose sempre dedicate al poeta Zeichen, è molto più che un compianto, o un libro dei ricordi: è un lungo dialogo che ancora continua, s’infittisce, evoca e accosta ogni sorriso e ogni lacrima al sentimento giusto, anche dopo la scomparsa, fuori tempo massimo.

DEL RESTO, è una illusione quella di cui è capace la poesia, sola arte in grado di accostare, fino a farle coincidere (talvolta pericolosamente, talaltra miracolosamente) versi e vita; è l’illusione di poter parlare per sempre, e per sempre giovani, con gli amici più cari, seduti ai tavolini di un bar, o all’ombra di un albero dai dolci frutti in una notte estiva improvvisando una cena – ah le famigerate, quasi mitologiche cene a tarda ora preparate da Valentino per i suoi commensali! «Soltanto chi scrive ha sentito il bisogno di tornare in quella casa che è l’amicizia, o almeno di continuare a riscaldarsi a quel fuoco per qualche tempo», afferma Gabriella Sica, regalando ai lettori e alle lettrici istantanee di una giovinezza e di una città che appartengono per magia d’amore a chiunque ne legga.

Veramente, viene da pensare rileggendo Tu io e Montale a cena, veramente s’è vissuto come dentro a un sogno («Mi pare come un sogno la poesia. / Stesso modo di predire il futuro»), nell’epoca più felice che potesse capitare in sorte, e in quel sogno i poeti a Roma non invecchiano, si fanno se mai nostalgici, e talmente belli, della luce bella e chiara della Città. In questo libro Sica ci mostra, con limpida e commossa onestà, testimoni i versi e la vita, che davvero la poesia può mettere in salvo i ricordi di ieri, per ingentilire e accompagnare i giorni a venire.