«Metà del paese non sa se domani mangerà»
Siria Allarme dell'Onu: dodici milioni di persone non hanno cibo a sufficienza. E i donatori occidentali condizionano gli aiuti alle sanzioni
Siria Allarme dell'Onu: dodici milioni di persone non hanno cibo a sufficienza. E i donatori occidentali condizionano gli aiuti alle sanzioni
Il comunicato diffuso una decina di giorni fa dal World Food Programme (Wfp), alla vigilia della conferenza dei donatori a Bruxelles, parlava chiaro: milioni di siriani sono alla fame. Non solo quelli che da anni vivono nei campi profughi sparsi tra Libano, Turchia e Giordania. Anche quelli rimasti in patria durante la guerra che ha devastato la Siria dopo le manifestazioni popolari del 2011. «La guerra in Ucraina ha inferto un nuovo colpo alla capacità dei siriani di nutrirsi proprio mentre il paese fatica a far fronte a livelli di fame che sono aumentati della metà dal 2019», ha avvertito l’agenzia dell’Onu, ricordando che il costo dei generi di prima necessità è ora al livello più alto dal 2013. «Dire che la situazione in Siria è allarmante è un eufemismo. La straziante realtà per milioni di famiglie siriane è che non sanno se domani mangeranno», ha spiegato David Beasley, Direttore esecutivo del Wfp. Ultimi dati alla mano in Siria più della metà della popolazione, circa 12 milioni di persone, affrontano l’insicurezza alimentare: il 51% in più rispetto al 2019. Mangiare è diventato un lusso per milioni di persone e assisterle è sempre più complicato per le organizzazioni umanitarie colpite da tagli dei finanziamenti.
All’allarme lanciato dal Wfp la risposta dei rappresentanti dei paesi, tra i quali l’Italia, che hanno partecipato alla sesta Conferenza di Bruxelles per gli aiuti alla Siria, è stata un misto di rassicurazioni umanitarie e di intimazioni politiche. Nella dichiarazione congiunta diffusa al termine della conferenza, i donatori esprimono sostegno all’inviato speciale dell’Onu, Geir Pedersen, e affermano l’impegno ad aumentare gli aiuti umanitari alla popolazione siriana e ai profughi negli Stati ospitanti. Allo stesso tempo condizionano indirettamente gli aiuti al mantenimento delle misure punitive contro il governo di Damasco e il presidente siriano Bashar Assad. In poche parole, l’aiuto umanitario occidentale e arabo non devierà dai binari imposti dal Caesar Act, il regime di sanzioni economiche imposto nel 2020 alla Siria da Donald Trump e che si sta rivelando, come mostrano anche i dati del Wfp, la causa principale che spinge nella fame e nella disperazione milioni di civili siriani innocenti.
Damasco ha scelto un profilo basso riguardo gli esiti, scontati, della conferenza a Bruxelles. E lo stesso ha fatto dopo aver appreso della decisione del Tesoro degli Stati uniti di escludere il Rojava, l’Amministrazione autonoma curda nel nord della Siria, dal Caesar Act e di autorizzare investimenti esteri in quell’area «per sconfiggere lo Stato islamico attraverso la stabilizzazione economica dell’area». Washington ha approvato attività in dodici settori, tra cui agricoltura, infrastrutture della rete elettrica, edilizia, trasporti, gestione dell’acqua e dei rifiuti, istruzione, commercio. Un passo contestato con forza dal leader turco Erdogan, che scorge nel provvedimento un «regalo» degli Usa ai suoi nemici curdi, e che invece Bashar Assad ha accolto senza particolari reazioni malgrado il presidente siriano insista particolarmente sul rispetto dell’integrità territoriale della Siria. M.B., un giornalista di Damasco che ci ha chiesto di non svelare la sua identità, spiega «che il governo centrale vede in questa concessione Usa nella Siria settentrionale una sorta di allentamento delle sanzioni» e l’opportunità di sfruttare lo status privilegiato assegnato da Washington al Rojava «per ottenere materie prime, petrolio, medicinali e altre merci che le sanzioni Usa stanno rendendo introvabili nel mercato ufficiale siriano». Il portale Al Hal Net riferisce che importanti uomini d’affari siriani nei giorni scorsi hanno discusso i modi per stringere rapporti più solidi con le realtà economiche curde.
Damasco preferisce lavorare a fari spenti per dare una risposta alle conseguenze delle sanzioni Usa. Anche perché la coperta dei sussidi governativi è corta e non basta a tamponare le criticità. E il malcontento aumenta. Gli agricoltori un tempo fiore all’occhiello dell’economia siriana, sono alla fame e protestano. Si aspettavano un maggior appoggio e invece il prezzo massimo per un chilo di grano fissato dal governo ha deluso le loro aspettative.
In tali circostanze, la visita a sorpresa fatta a inizio mese da Bashar Assad in Iran è servita al presidente siriano per assicurarsi altri aiuti di Teheran. A Damasco pensano che se l’Iran, dopo il rilancio internazionale dell’accordo sul suo programma nucleare (Jcpoa), non sarà più soggetto a sanzioni, a beneficiarne sarà anche la Siria.
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