Fenomenologia della malinconia; patina bronzea, brunita nello spazio del «quadro»; e gli esseri che v’errano, vi si smarriscono, quasi spettri consumati dalla tristezza, come una bruma scarnificante le sagome: sembrano essere questi gli elementi essenziali, figurali della poetica di Valerio Zurlini, uno dei registi più sensibili, saturnini e appartati della storia del cinema italiano, autore di soli otto lungometraggi tra il 1954 e il 1976 e orfano di almeno tre film che non è mai riuscito a girare.

ANCORA OGGI La prima notte di quiete (1972) risulta essere tra i feticci dell’immaginario cinematografico contemporaneo più ancora di film generazionali e «politici» come La ragazza con la valigia (1961), e ciò non solo per via della vicenda che racconta, un amore disperato ed esemplare in uno sfondo deteriore, una borghesia intossicata, ma proprio in misura dell’impianto spaziale, contemplativo alla base dell’evocazione ed evasione dei personaggi, dell’incidenza atmosferica sui loro destini: l’autunno, le nuvolaglie, scure luci d’intorno, mari spumosi (mi ha sempre fatto pensare al finale, all’ultima frase del Peccato di Giovanni Boine, il «mare giallastro bavoso» come correlativo oggettivo degli amanti perduti, questo mare di Rimini su cui si riflette l’angoscia di Dominici), il fortore delle ombre negli interni, che siano le alcove in cui si struggono gli amanti o le discoteche degli stravizi borghesi o i retrobottega, le bische del gioco d’azzardo.

Insomma qualcosa di pittorico, pigmenti, toni, condizioni di luce (a immergere le creature, i soggetti così grondanti), che erano forse il presupposto creativo di Zurlini, grande conoscitore e amante d’arte e amico di personalità come Guttuso, Morandi, Lucio Fontana. Del resto quel Daniele Dominici che porta Vanina a Monterchi davanti alla Madonna del parto di Piero della Francesca non può che essere il regista stesso, con la sua malinconia fradicia, la capacità d’incantamento eppure la disillusione, la sua ricerca della bellezza nonostante la meschinità del mondo, e non quell’Alain Delon da lui ricusato perché «l’opposto morale del personaggio» e motivo per cui Zurlini non si sentì mai troppo legato al film.

Tutto ciò, le amicizie, i ricordi di giovinezza – soprattutto l’aggregazione ai partigiani, poi, al ritorno dalla guerra, l’università e il teatro –, qualche eco d’amore improvviso, la passione per l’arte, per il cinema, il lavoro da regista, le rimuginazioni sulle sceneggiature (ad esempio in compagnia di Suso Cecchi D’Amico o con Vasco Pratolini in occasione della trasposizione del suo romanzo, Le ragazze di San Frediano non troppo amato da Zurlini), e le vicissitudini produttive, il racconto dei tre film non realizzati, sono al centro delle Pagine di un diario veneziano uscito per le edizioni Mattioli 1885.

LIBRO PREZIOSO, dalla sintassi tornita: è un diario a cui Zurlini lavorò fino a pochi giorni dalla morte, stampato per la prima volta a tiratura limitata nel 1983 (e perciò da allora divenuto introvabile) con il titolo Gli anni delle immagini perdute. Vi si legge, oltre all’introduzione di Pratolini già presente nell’edizione del 1983, una prefazione molto ispirata di Filippo Tuena, il quale scrive: «Si cresce per sottrazioni, penso o forse, meglio, siamo sempre sul limite delle cose perdute». Ecco, mi pare che a prescindere dal rimpianto per quei film abortiti, perduti, a cui Tuena si riferisce, il limite delle cose perdute possa suonare come la chiave, possa essere la marca estetica di tutta l’opera di Zurlini (compreso questo libro): cinema come incarnazione di assenze, di mancanze d’amore, di bellezza, di etica, espresse, mostrate dalla biosfera dell’immagine, dai suoi spazi crollanti, autunnali, perché se ne senta la presenza, languente, che lascia ogni volta la sua impronta, una «forma cava» (così la chiama Renato Serra) sul limine dell’esistenza.