Potrà sembrare un paradosso, eppure gli arabi, originari di una cultura terrestre immersa nell’aridità del deserto, hanno un rapporto speciale con le isole: ne sono affascinati, le cercano e ne trovano dovunque. Basti pensare che il nome stesso dell’emittente araba più conosciuta, Aljazeera, significa letteralmente «l’isola» (al-jazira). È ben vero che, come nel caso del greco nêsos, in arabo lo stesso termine significa anche la «penisola» e il riferimento, in questo caso, è per l’appunto alla penisola araba; ma se i due concetti sono espressi dal medesimo termine, un motivo ci sarà.
Nella ben nota metafora del deserto come un «mare» di sabbia, con i cammelli che, come «navi», ne solcano le rotte, non c’è da stupirsi se perfino sulla terraferma possono trovare posto delle «isole». Del resto, Jazira, «Isola» è chiamata anche la regione dell’alta Mesopotamia tra il Tigri e l’Eufrate, mentre il nome di Algeri, al-Jaza’ir, significa «le isole».

Date queste premesse, non desta meraviglia che un docente di arabistica, Angelo Arioli, dedichi un intero volume, Isolario arabo medioevale (Adelphi, pp. 342, euro 22,00) alle «isole» descritte secoli fa dagli arabi nel corso dei loro viaggi per i sette mari. I testi provengono dai racconti di viaggiatori medievali, da quelli di un non meglio identificato «mercante Sulayman» del nono secolo fino a quelli di Ibn Al-Wardi, vissuto nel quindicesimo, e come si può immaginare sono lungi dal rappresentare una fonte geografica precisa e affidabile. Si sa, i marinai hanno fama di gran contafrottole, propensi a ingigantire ogni pericolo affrontato e a inventare dettagli pittoreschi per ogni loro avventura, dunque il libro va letto più come un esempio di letteratura fiabesca che come un documento scientifico.
L’operazione del traduttore e curatore italiano, che ha estrapolato dalle relazioni di viaggio le parti relative alle isole (ottantasette in tutto), proponendole al lettore una dopo l’altra, ottiene l’effetto di immergerlo nell’atmosfera meravigliosa di un mondo incantato, un mondo a sé, il mondo delle isole. Dove non trovano posto isole «nostrane», quelle del Mediterraneo, come la Sicilia, la Sardegna o Malta, ben note a tanti lettori/ascoltatori e difficili da abbellire con dettagli a effetto, ma solo isole di mari lontani, in particolare l’Oceano Indiano o il Mare della Cina, e a occidente l’Atlantico, al di là delle Colonne d’Ercole. Delle terre descritte, quella a noi più nota è l’Irlanda, sperduta in mari ben distanti dall’Arabia, i cui abitanti, a sentir questi resoconti, «secondo l’uso e il costume dei Magi, vestono mantelli del valore di cento denari, mentre quelli dei nobili sono adorni di perle…»

Arioli non nasconde il proprio personale coinvolgimento nell’opera affabulatoria dei suoi autori, e in più punti giustifica esplicitamente le scelte operate – non sempre all’insegna del rigore filologico – nella selezione dei brani o nelle traduzioni di termini ambigui, perché le sente più in sintonia con queste atmosfere irreali, dichiarandosi «alla cerca d’episodi al limitare del plausibile, sconfinanti nel visionario». L’inafferrabilità delle isole descritte è ben rappresentata dalle Isole Mobili, avvistate ma mai raggiunte da numerosi viaggiatori di ogni epoca e in ogni mare: sono forse parenti del Pesce-Isola o dell’Isola della Testuggine, approdi che una volta raggiunti si sono rivelati essere creature gigantesche, che si inabissano dopo essere state disturbate dagli incauti che vi avevano messo piede. In generale, il maraviglioso che caratterizza, con mille varianti, tutte le descrizioni, gioca su due poli contrapposti: da una parte quello delle prodigiose ricchezze dei paesi visitati e dall’altra quello della drammaticità degli incontri con esseri mostruosi e selvaggi. Espressione del primo sono, per esempio, le Isole Waq Waq, «un paese talmente ricco d’oro che gli abitanti ne fanno catene per cani, collari per scimmie, e vanno con tuniche d’oro intessute». Per non parlare dell’ovvia opulenza delle Isole Felici: i suoi abitanti «non arano, non seminano e non raccolgono, ma alle loro porte stanno alberi che fruttano loro di che mangiare. Nella loro terra ci sono perle e rubini, sui loro monti oro e argento».

All’estremo opposto, le località più temibili, popolate da esseri mostruosi e pericolosi, come l’Isola delle Diavolesse, «gente con fattezze di donna, coi canini sporgenti, gli occhi sfolgoranti, le cosce qual legno combusto», o l’Isola del Rukhkh, in cui nidifica un immenso uccello, che in volo pare una montagna librata nell’aria: «quello che avevamo creduto un monte è il Rukhkh! Se ci vede ci distruggerà». Spesso questi esseri terribili sono posti a guardia di tesori: tra loro, le «serpi assassine» che abitano, e proteggono dai cercatori, i rubini dell’Isola dei Rubini, che ovviamente vi abbondano «quasi sassi». L’amore per il racconto esagerato, volto più a stupire l’uditorio che a descrivere una realtà, è comune ai naviganti di ogni paese, non solo ai viaggiatori musulmani, e ben lo si può vedere, nelle note che completano il libro, tutte le volte che Arioli mette a confronto i testi arabi con brani tratti da autori europei che non lesinano, parlando delle stesse isole, le allusioni a magnificenze, pericoli, esseri mostruosi e strani che caratterizzavano quei luoghi remoti.

L’Isola delle Donne, per fare un solo esempio, popolata cioè solo da donne, «ennesimo riverbero, questa volta in lingua araba, del mito delle Amazzoni» non viene citata solo nei testi arabi di Buzurg e al-Qazwini: come ci fa notare l’autore, di un’isola con queste caratteristiche, collocata nell’Oceano Indiano, viene fatta menzione anche da viaggiatori nostrani come Marco Polo e Antonio Pigafetta. E l’isola di Sarandib (Sri Lanka, già Ceylon), scolpita nell’immaginario occidentale per la sua atmosfera magica, al punto che la lingua inglese ha coniato a partire da essa il vocabolo di serendipity, è notoriamente considerata nel mondo islamico il luogo in cui Adamo atterrò dopo la sua caduta dal giardino dell’Eden, e di questa credenza si fanno portavoce non solo gli autori citati nel nostro libro, come Ibn Wassif Shah o Ibn Battuta, ma perfino Marco Polo, che riferisce come il Gran Kanh vi inviasse una spedizione per recuperare le reliquie del progenitore dell’umanità.

Beninteso, non tutto è solo invenzione e fantasia. Un punto di partenza reale spesso esiste, e non è raro che tra le tante meraviglie riferite sia possibile scorgere dettagli e caratteristiche autentiche di località e culture lontane. Di un impressionante realismo è, per esempio, la descrizione che viene fatta, parlando dell’Irlanda, della pesca alla balena con una fiocina lanciata da una scialuppa. Ma in tanti casi le incrostazioni leggendarie rendono veramente difficile risalire al nucleo originario. Molto opportune sono quindi le note poste a commento di ogni brano, che permettono di avere un’idea delle principali teorie emesse dagli studiosi che su questi testi hanno compiuto approfondite analisi, evitando però di dilungarsi in una puntigliosa disamina di ogni questione, che renderebbe la lettura inutilmente pletorica e ostica per il non specialista.

Ai lettori appassionati di mirabilia farà piacere sapere che dell’opera di uno degli autori cui Arioli ha attinto, per la precisione al-Qazwini, esiste da qualche tempo una bella edizione in lingua italiana, Le meraviglie del creato e le stranezze degli esseri (traduzione di Francesca Bellino, Mondadori 2008), nella quale sono ricordate numerose altre isole, insieme a una moltitudine di pesci, mostri e esseri leggendari del mare, della terra e del cielo. Di che deliziare quanti non fossero ancora sazi di descrizioni favolose e strane.