«Nella vita di un simbolista tutto è simbolo. I non-simboli non esistono»: con questa formula perentoria, Marina Cvetaeva collocava l’esistenza terrena di Andrej Belyj sotto il segno di una fatale, irresistibile tentazione a trascendere il dato tangibile, trasfigurandolo in una realtà superiore, dotata di una sua intrinseca (benché inafferrabile) necessità. Una tendenza a squarciare il velo di Maia della percezione sensibile che nella poetessa moscovita non poteva che suscitare un moto di comprensione empatica: lo testimonia il saggio del 1934 Uno spirito prigioniero, dove Cvetaeva tratteggia un ritratto del collega certamente più solidale e lusinghiero rispetto a quelli consegnati alla posterità da altri emigrati russi a Berlino, Vladislav Chodasevic su tutti.

Che lo stesso Belyj fosse (ovviamente) incline a rileggere in chiave simbolica gli avvenimenti fondamentali della sua biografia lo dimostrano le note a margine del suo soggiorno italiano datato inverno 1910, già edite da Lucarini nel 1989 a cura di Giacoma Strano e ora riproposte da Castelvecchi con il titolo Da Venezia a Palermo (pp. 128, euro 14,50). Rielaborando nel 1918-1919 per la pubblicazione in volume le sue frammentarie impressioni di viaggio già uscite nel 1911 sul quotidiano pietroburghese «Rec’», l’autore attribuì infatti ex post una precisa valenza teleologica a quella che altrimenti poteva apparire una semplice fuga romantica in compagnia della moglie Asja Turgeneva.

Fin dalle prime pagine, la precipitosa discesa verso sud alla ricerca di calore e di un posto tranquillo dove scrivere si trasforma in un pellegrinaggio spirituale alla scoperta del proprio io più profondo, ovvero nella prima, inconsapevole tappa di quel percorso iniziatico che nel 1914 avrebbe portato la coppia ad aderire alla dottrina antroposofica di Rudolf Steiner.

Incalzati da un «misterioso impulso» che solo da lì a qualche anno sarebbe diventato intelligibile, i due si involano a rotta di collo in una catabasi ferroviaria che ben poco ha a che vedere con i tempi tradizionalmente dilatati del Grand Tour. L’ansia frenetica di arrivare in Sicilia, meta prestabilita del viaggio, non giova certo all’esperienza estetica. Venezia, «mondo di riflessi», balugina «quasi in sogno»; Firenze e Roma, contemplate per lo più dal finestrino del treno, destano una certa perplessità e l’arrivo a Napoli sotto una pioggerellina tamburellante sembra una parodia involontaria di quelle «impressioni meridionali» coltivate dall’immaginario nord-europeo a partire dal Canto di Mignon: «seduto di fronte a un tedesco pensoso, declamavo in sordina: Kennst du das Land… Mah!?»

D’altro canto, Belyj si era spinto in Italia mosso da suggestioni assai peculiari che, insieme a idiosincrasie non meno bizzarre e a considerazioni più prosaiche, avrebbero dettato tempi e modi del suo itinerario. Refrattario al fascino «esotico» della religione cattolica (cui invece soggiaceranno altri simbolisti russi come Vladimir Solov’ev e Ellis), non ancora «destatosi al Rinascimento», come egli stesso ammetterà, e sostanzialmente indifferente nei confronti delle antichità greco-romane, lo scrittore moscovita si volgerà soprattutto al passato bizantino dell’Italia, alla ricerca di quell’ideale fusione tra Oriente e Occidente esemplificata dalla «corrusca magnificenza» della cupola di S. Marco a Venezia.

Sotto questa angolatura, la Sicilia di Ruggero II e della cattedrale di Monreale non delude certo le sue aspettative. Se infatti tutta l’isola «è un magnifico ornamento orientale, intrecciato in Italia in modo, bisogna ammetterlo, quasi casuale», Palermo in particolare appare come «un miraggio, un incrocio di poli opposti», di stili inconciliabili, «un sisma nel quale sprofonda tutto ciò che la cultura costruisce». Dissonante e stridente come la musica di Skrjabin, la città risuona di una «polifonia soffocante, confusa, torrida» che Belyj contribuisce a complicare con ossessioni squisitamente personali, prima tra tutte l’eco del Parsifal wagneriano, portato a compimento proprio a Palermo, in quello stesso Hotel des Palmes in cui soggiorneranno Andrej e Asja. Sicché non c’è da stupirsi se la sagoma del Monsalvato, il castello del sacro Graal, nell’immaginazione di Belyj trasmigrerà miracolosamente dal nord della Spagna per sovrapporsi alla mole della cattedrale di Monreale.

Nell’interpretazione pseudo-misterica che lo scrittore darà a posteriori del suo viaggio, i non-simboli saranno destinati a dissolversi o quantomeno a ridursi ad apparizioni ininfluenti, fantasmatiche come i profili degli sporadici turisti incontrati qua e là, con il naso invariabilmente sprofondato nel «volumetto cremisi del Baedeker». La Sicilia di Belyj è innanzitutto la patria di Cagliostro e di Empedocle; è «la chiave di tutto», come a suo tempo aveva dichiarato sibillino Goethe; è l’epicentro di uno Streben che porterà l’irrequieta coppia sempre più a sud, prima a Tunisi e poi attraverso l’Egitto e la Palestina di nuovo a Mosca via Odessa.

Nel gennaio 1911 Andrej e Asja si imbarcheranno infatti a Trapani alla volta dell’Africa settentrionale, rinunciando all’idea originaria di risalire la penisola per dedicarsi alla coscienziosa visita di città e musei. A incalzarli stavolta era il freddo patito nella squallida stanza affittata sopra il ristorante Savoia a Monreale, nonché l’impossibilità di trovare un buen retiro alla portata delle loro tasche. «Il mare color turchese ci attira, ma qui non possiamo stare», scriverà Belyj all’editore di «Musaget» Emilij Metner, che gli aveva corrisposto un modesto anticipo per dedicarsi alla stesura del romanzo che da lì a qualche anno sarebbe divenuto Pietroburgo.

Così, dopo aver passato in rassegna ville troppo lussuose e capanne di pescatori troppo misere, i due si affrettano a riparare in Tunisia, ed è un peccato che il libriccino curato da Strano, traendo dal volume originario titolato Sicilia e Tunisi la sola parentesi italiana, li abbandoni proprio mentre avvistano da lontano «minareti color neve» e fenicotteri rosa. Una riproposta integrale del testo uscito a Berlino nel 1922 avrebbe restituito il viaggio «mediterraneo» di Belyj in tutta la sua sincretica visionarietà, chiarendo fino a che punto la percezione della Sicilia (e perfino di Venezia!) trasposta in queste pagine fosse stata in realtà condizionata dalla successiva esperienza africana.