Il Mediterraneo, nonostante conti una superficie pari allo 0,32% di tutti gli oceani del pianeta, custodisce circa il 7,5% delle specie mondiali e una diversità di specie circa 10 volte superiore alla media mondiale. Una ricchezza straordinaria, che sta subendo però degli attacchi molto pesanti.

Solo negli ultimi decenni ha perso il 41% dei principali predatori marini. Secondo una recente previsione del Gruppo Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici delle Nazioni Unite (IPCC), più di 30 specie endemiche rischiano di estinguersi entro la fine del secolo. Oltre il 50% di squali e razze, sono minacciati di estinzione e tredici specie si sono ormai estinte localmente, soprattutto nel Mediterraneo occidentale e nell’Adriatico. La Posidonia oceanica, che svolge un ruolo fondamentale nella conservazione degli ecosistemi e nella produzione di ossigeno, potrebbe perdere il 70% del suo habitat entro il 2050 con un potenziale di estinzione funzionale entro il 2100.

Un declino che, naturalmente, non risparmia le specie ittiche. Oggi il 75% degli stock valutati è oggetto di pesca eccessiva, un dato che consegna al Mediterraneo il triste primato di bacino con il più alto tasso di sovrasfruttamento al mondo.15 su 18 stock ittici analizzati sono soggetti a sovrapesca. Alcuni sono in “zona rossa”, con livelli di biomassa così bassi da comprometterne la riproduzione.

ALLA CRISI DEL MEDITERRANEO concorrono altre fonti: inquinamento, cambiamenti climatici, inquinamento acustico generato dal traffico marittimo e lo sfruttamento di idrocarburi. Ma l’impatto prevalente sull’ecosistema marino è provocato dalla pesca industriale, sempre più invasiva, aggressiva e dotata di tecnologie che le consentono di raggiungere profondità inesplorate e di localizzare le prede con strumenti all’avanguardia. La pesca a strascico, in particolare, esercita un impatto così devastante sui fondali marini da essere paragonato al taglio a raso delle foreste. Lo studioso Daniel Pauly l’ha definita una tecnologia risalente al medioevo di cui disfarsi per i suoi altissimi costi ambientali.

RIPRISTINARE LA BIODIVERSITÀ e tutelare i fondali marini, i maggiori serbatoi di carbonio del Pianeta è anche uno degli obiettivi della nuova Strategia sulla biodiversità dell’Unione europea, che richiama alla tutela del 30% dei mari continentali entro il 2030. Un impegno che rischia di finire nel catalogo delle buone intenzioni – insieme alle tante aree protette istituite solo su carta – se non verranno prese misure concrete per la sua piena attuazione.

La chiusura di determinate aree di particolare valenza biologica è determinante per la tutela e il recupero del Mediterraneo, impoverito da decenni di sovrapesca. È stato questo il tema al centro dell’evento che si è tenuto a Bruxelles al Parlamento europeo. L’iniziativa, promossa da MedReAct e dai Parlamentari Fred Matic e Caroline Roose, ha voluto fare il punto sulla situazione del nostro mare, soggetto ad un intenso sforzo di pesca che ne ha compromesso gli ecosistemi, e sulle misure che è necessario adottare per salvarlo.

NEGLI ULTIMI ANNI L’UNIONE EUROPEA e la Commissione Generale per la Pesca nel Mediterraneo (CGPM) hanno avviato un processo di rafforzamento delle misure di gestione e conservazione delle risorse marine in tutto il bacino del Mediterraneo, tra cui l’istituzione di aree di restrizione alla pesca (Fish Recovery Areas, FRA).

TRA QUESTE SPICCA L’AREA della Fossa di Pomo che, dopo varie vicissitudini, è diventata nel 2017 la prima FRA dell’Adriatico, promossa da MedReAct e istituita dalla Commissione Generale della Pesca nel Mediterraneo per tutelare le nursery di nasello e scampo, le specie più prese di mira perché tra le più commerciali. In pochi anni questa zona ha prodotto uno straordinario aumento della biomassa e densità di queste specie, sia all’interno della FRA chiusa alla pesca, sia nelle aree adiacenti. Molti pescatori che inizialmente avevano contestato l’introduzione della misura oggi, a fronte di un aumento delle catture, la sostengono. Inoltre l’area è tornata ad essere popolata da specie, come gli squali, che prima del 2017 erano quasi sparite.

Oggi la FRA della Fossa di Pomo costituisce un caso internazionale di buona pratica, citata come modello da replicare per raggiungere l’obiettivo, sancito dalla Dichiarazione di Malta, MedFish4Ever, di una rete di FRA in tutto il Mediterraneo.

I riflettori sono stati puntati su questo caso, che è stato ampiamente illustrato anche attraverso testimonianze e la proiezione di un video, per ribadire quanto possono essere benefiche per il Mediterraneo queste misure e quanto è importante prevedere, così come proposto da MedReAct e come sottolineato da uno studio recente, l’estensione del divieto di strascico al di sotto dei 600-800 metri di profondità e l’istituzione di altre FRA in aree di grande valenza ecologica come quelle proposte da MedReAct nel Golfo del Leone, al largo del Delta dell’Ebro, nel Canale di Otranto e nell’area del Mammellone, al largo della Tunisia.

L’ISTITUZIONE DELLE FISH RECOVERY AREAS porterebbe un contributo rilevante ai rispettivi impegni nazionali di conservazione della Strategia europea per la biodiversità per il 2030. «Riservare importanti porzioni di mare al ripopolamento degli stock ittici e alla salvaguardia di habitats e specie sensibili è una strategia vincente che andrebbe perseguita con più vigore», ha dichiarato Domitilla Senni di MedReAct. «Ne beneficerebbero in primis gli stessi pescatori, superando così la consueta contrapposizione fra tutela dell’ambiente e perdita di posti di lavoro».