Ancora nei pieni anni settanta, per il senso comune, il Novecento poetico è un secolo duale. Tengono infatti il campo, diametrali ma sottotraccia così implicate da risultare convergenti, due antologie depositarie del gusto e, perciò, del senso comune medesimo.

Già nel ’43 Luciano Anceschi ha pubblicato Lirici nuovi, antologia solennemente riproposta nel ’64, laddove l’aggettivo del titolo allude a una netta discontinuità rispetto ai maestri proto-novecenteschi e si riallaccia a una poetica che a lungo si dirà senz’altro ermetica (Campana, Ungaretti, Montale, Quasimodo ne sono i nomi primi) e solo in un secondo tempo battezzata come Grande Stile.

Di contro, il maggiore esponente del Gruppo 63 di cui proprio Anceschi nel ’56 ha patrocinato l’esordio pubblicandogli il poemetto Laborintus, vale a dire Edoardo Sanguineti, firma nel ’69 per Einaudi una antologia di carattere apertamente militante, Poesia italiana del Novecento, tutta nel segno della sovversione avanguardistica se infatti si apre con Gian Pietro Lucini e chiude (ma si dovrebbe dire culmina) con la Neoavanguardia.

Il Novecento pare dunque specchiarsi nella dialettica esclusiva di Ordine e Disordine, di Cosmo e Caos per cui, alla lettera, tertium non datur. E invece nel novembre del 1978, nella collana dei «Meridiani» Mondadori allora diretta da Giansiro Ferrata, esce l’antologia dei Poeti italiani del Novecento, titolo in sé scandaloso perché privilegia il concreto e plurale (i poeti) preferendolo all’astratto e plurale (la poesia). Ne esce uno schema in effetti non più duale e svincolato da poetiche egemoniche e relative affiliazioni: insomma è un secolo a forma di arcipelago o di costellazione dove pulsano diverse stelle fisse.

Firma l’antologia un filologo e storico della lingua poco più che quarantenne, Pier Vincenzo Mengaldo, allievo a Padova di Gianfranco Folena, studioso di Dante e Boiardo che ha al suo attivo La tradizione del Novecento (Feltrinelli 1975), prima raccolta di una serie oggi arrivata al quinto volume e giustamente ritenuta classica. Va aggiunto che Mengaldo agli strumenti della filologia aggiunge per osmosi la lezione, o se si vuole l’orecchio assoluto, di alcuni straordinari connoisseur e fra gli altri Sergio Solmi e Franco Fortini (cui peraltro Mengaldo, curandone nel ’74 l’Oscar Mondadori delle Poesie scelte, ha per primo riconosciuto, e senza riserve, la statura di poeta).

Mengaldo lavora per prelievi testuali e minutissime analisi della lingua e dello stile, procede per accumulo di elementi parziali che tuttavia, di colpo, si strutturano e prendono la forma di una totalità, nella fattispecie di un ritratto d’autore. In questo modo funzionano (come vere e proprie monografie in vitro) i cappelli che introducono a ognuno dei Poeti italiani del Novecento e in questo modo procede lo studioso riunendo adesso nel volume Saggi e note su Saba (Quodlibet «Studio», pp. 92, € 14,00) i contributi concernenti uno dei maestri che più hanno patito la lettura duale del Novecento, a lungo emarginato come poeta periferico e di profilo anacronistico fino a sentirsene cancellato e indotto a scrivere sotto pseudonimo l’auto-apologia Storia e cronistoria del Canzoniere (1948). Qui sono in tutto otto partiture saggistiche (cronologicamente comprese fra il 1978 e il 2016) e la prima, dedotta giusto dai Poeti italiani del Novecento, fissa le sottolineature di una lettura che il tempo arricchirà senza mutarne la sostanza: in particolare è rilevata la capacità di immergersi, da parte di Saba, nella «calda vita», di sentire e captare gli strati profondi del vissuto, infine di esprimerli senza perderli nella sublimazione. Con un impeccabile aforisma critico, Mengaldo parla in proposito di «epicizzazione del quotidiano» il cui tramite è una poesia narrativa e dialogica, minoritaria nella tradizione italiana, specialmente analizzata nei due saggi storico-linguistici La lingua poetica di Saba (’94) e Una città e una lingua letteraria: Trieste (2004): autore trilingue (tedesco, dialetto triestino e italiano) pari ai concittadini Svevo e Giotti, anche per Saba il dialetto è una sonda immersa nel vissuto più intimo della quotidianità mentre l’italiano serve da amalgama di idiomi diversi e, necessariamente, tutti di frontiera.

A dispetto dello stereotipo che a lungo ha bollato il poeta come ritardatario o provinciale tout court, Mengaldo scrive che nei suoi versi «lessico quotidiano e lessico letterario tendono a incontrarsi a mezza strada» ma in presenza, comunque, di orditi sintattici molto complessi e talora asincronici. Al riguardo basterebbe citare (è l’oggetto del saggio Una costante sintattica del Canzoniere, 2009) il largo utilizzo della figura della ripetizione che i manuali di retorica chiamano reduplicatio, figura iterativa che è l’antipode della variatio quasi universalmente utilizzata dai poeti novecentisti, e che Saba tende a mitigare nelle sue ultime raccolte «per la tangenza alla lirica nuova o più tardi per l’ulteriore abbassamento della poesia a diario, che smorza il pathos come la liricità». (Sia detto per inciso, Mengaldo a Parole, 1934, e Ultime cose, ’44, – scritte in muto dialogo fra gli altri con Penna e Montale – preferisce decisamente Trieste e una donna, ’12, e La serena disperazione, ’20, concordando con un altro grande lettore, Mario Lavagetto, che in Per conoscere Saba, 1981, lo associa alle arie di Verdi, alla «musica melodrammatica, di grande intensità, diffusa, molecolare, imprendibile … come una misteriosa partitura»).

Letture in senso specifico sono gli altri quattro contributi compresi nel volume, databili fra il 2009 e il 2016, e riguardano rispettivamente Trieste, Città vecchia, In riva al mare e Neve. Valore paradigmatico ha l’analisi della seconda, «la più intrisa di ‘cose’ e di umanità» nota Mengaldo, non solo perché mostra una fattura metrica e strofica ricorrente (una strofe per lo più di endecasillabi e settenari collocata fra due strofe più brevi) ma soprattutto per l’evidenza di quell’universo creaturale che il poeta altrimenti definisce l’infinito nell’umiltà.

Semmai il rammarico è di non trovare in Saggi e note su Saba le dense paginette dal critico dedicate a Scorciatoie e incluse in Giudizi di valore (Einaudi 1999). Mengaldo oggi le liquida come «troppo scarne e giornalistiche» ma in realtà, e puntualmente, coglievano il caso di un genere aforistico e riflessivo, in senso lato sapienziale, «che è raro in Italia quanto comune in Francia». Perché nell’immediato dopoguerra, scampato ai bombardamenti e alla deportazione, il formidabile lettore di Nietzsche e indocile adepto di Freud rinfacciava agli italiani di essere dei fratricidi invece che dei parricidi, di ingaggiare cioè guerre civili perché inetti a qualunque rivoluzione e ricordava loro che, dopo la turbercolosi dell’Ottocento, il Novecento aveva il cancro fascista. Come ci informa un altro poeta (il suo giovane amico Vittorio Sereni) è il Saba che dopo il 18 aprile del 1948 e la sconfitta del Fronte democratico popolare va ramingando per il centro di Milano e urlando Porca! all’Italia, è lo stesso che in un endecasillabo efferato (Dopo il nero fascista il nero prete) sa riassumere il destino politico del proprio paese. Un poeta la cui pretesa inattualità assomiglia via via alla paradossale attualità dei classici: anche per questo motivo a quanti, come Pier Vincenzo Mengaldo, ci insegnano a leggerlo va la nostra gratitudine.