Il passato è il tempo del non essere più. Eppure, in forme impreviste, accompagna ogni persona anche quando è apparentemente assente o perché stiamo perdendo la memoria o perché vogliamo dimenticare con tutte le forze un evento che procura un dolore lancinante.
Vale per Saul afflitto da una progressiva demenza, vale per Sylvia che in gioventù ha subito qualcosa che la sua mente sta modificando al punto da confonderle i ricordi. Entrambi, con le loro malattie e traumi, sono relegati ai margini. Hanno alle spalle famiglie che non riescono a fare i conti con l’incerta cadenza della vita e ricorrono alla strada più semplice, quella del controllo, dei divieti, dei filtri per eliminare ogni imprevisto. E così, oltre al passato, a Sylvia (che a sua volta è estremamente severa con la figlia Anna) e Saul è sottratto il futuro, in un presente composto da confortevoli gesti ripetitivi, da continue verifiche, da riunioni con gli alcolisti anonimi, da appunti scritti su un taccuino per non disperdere ciò che si è appena vissuto, da una canzone dei Procol Harum, A Whiter Shade of Pale.

IL DOMANI, però, tracima sempre, rompe ogni argine. E accade che, proprio per un difetto della memoria, Sylvia e Saul si incontrino e, dopo l’iniziale timore/terrore, trovino l’una nell’altro un inaspettato punto di partenza. La meta è sconosciuta, intraprendere false piste è tra le eventualità. La fragilità rimane là visibile come il fantasma del padre di Amleto. Ma non è detto che tutto debba finire in tragedia come a Elsinore. Il tempo potrebbe tornare a scorrere pure per Sylvia e Saul, tra slanci quasi adolescenziali e paure che non possono scomparire d’incanto. Rifiutando il ruolo di «danneggiati», accettando invece la parte dei giocatori che sperimentano le molteplici possibilità dell’esistenza.

Il regista messicano Michel Franco con Memory, in concorso all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ha decisamente cambiato rotta con un racconto delicato, attento ai suoi personaggi, certamente meno intricato del precedente Sundown. Anche in quel caso il passato rappresentava uno degli elementi essenziali del film. Svelarlo significava chiarire l’intera vicenda. Perché Neil Bennett, il protagonista interpretato da Tim Roth, si comporta in quel modo autodistruttivo? Una domanda talmente assillante da oscurare la traiettoria di una figura umana, la sua storia, il suo (non) essere (più) nel mondo.

In Memory tracce e indizi sono espedienti narrativi. Alimentano la trama, danno suggerimenti, senza mai sovrapporsi alle soggettività di Sylvia e Saul. Sapere perfettamente cosa li abbia condotti a una spiazzante relazione non è più importante della relazione stessa, del suo andare avanti e arrestarsi, del suo incedere di volta in volta. Spezzato il rigido legame tra causa ed effetto, si può finalmente vivere nel saliscendi quotidiano. A differenza di Neil Bennett che manipola la realtà circostante (pur in maniera fallimentare), Sylvia e Saul si aprono a quella realtà circostante, che si tratti di un parco newyorkese, di una lussuosa abitazione o di un appartamento che doveva funzionare da inaccessibile fortezza.

IN QUEST’OPERA così riuscita, non si possono trascurare i meriti di Jessica Chastain e Peter Sarsgaard (Coppa Volpi per il miglior attore), in grado di dare spessore a una donna e a un uomo che a un certo punto non aspirano più a una presunta ed effimera armonia o, meglio, che si ribellano alle aspettative normative di chi gli sta intorno. Accogliere dissonanze e difformità poteva indurre i due interpreti a eccedere, a mettere in mostra disagi con piglio istrionico, mascherando (e nascondendo), appunto, una donna e un uomo.