È attraversata da una grazia speciale la seconda raccolta di Gisella Genna, Rarefazione, appena uscita da peQuod (pp. 64, euro 13), a tre anni di distanza dalla prima (Quarta stella, Interno Poesia). È una grazia alla quale, volendo, potremmo dare il nome di «nostalgia», perché è questo il sentimento che più di altri sembra tenere insieme le trentacinque poesie da cui la silloge è composta: un senso di nostalgia nei confronti del passato, o comunque di un tempo abitato da persone che oggi non ci sono più (il padre, in particolare: nella sua singolarità, e non come semplice simbolo o metafora). Ma una nostalgia dolce, pacificata, che come tale non impedisce quindi di pensare al futuro e che anzi lo fonda – nella misura in cui conferisce al presente che viviamo un respiro quieto, quasi armonioso. È una nostalgia che restituisce al tempo una sua piena continuità, quale dovrebbe essergli propria: tempo che scorre, del quale ognuno di noi, per usare un’immagine di Elio Grasso nella prefazione, è «corpo testimone». Come a dire che ognuno, alla fine, non è solo ciò che è ma è anche ciò che lascia a chi viene dopo, nella successione delle esistenze e delle memorie.

NON A CASO, di memoria e memorie la raccolta è piena: di immagini di cose e situazioni concrete tanto quanto di percezioni e sensazioni, le une mischiate alle altre (talora come delle sinestesie tout court). Ad esempio l’immagine di un bosco nel corso di un’estate, o del «raggio preciso di un mattino», o di una casa «di ringhiera e cotto/ dei primi novecento»; oppure il ricordo di un «esatto sentire» sotto una certa «pioggia crepuscolare», fuori da un’abbazia, o di una solitudine serale.
È un passato che continua a vivere nel presente, nel quale i corpi di chi non c’è più non sono più tali, è vero, ma sono ugualmente presenti a loro volta: sono corpi che si sono semplicemente liberati della loro gravità, presenze prive di peso terrestre eppure non meno reali e immanenti, per quanto rarefatte (ed è proprio questo, probabilmente, il genere di rarefazione cui vuole alludere il titolo, per quanto spesso ad apparirci rarefatta possa essere la stessa realtà davanti ai nostri occhi). Ne troviamo una conferma già nell’epigrafe, tratta da Clarice Lispector: «Scrivo come fossi quasi completamente liberato dal mio corpo. Come se levitasse».

MA POI ANCORA MEGLIO in molti versi della medesima Genna, come quando leggiamo: «L’affondo del reale/ il nostro freddo – la parola si fa marginale,/ sfioramento senza peso dei copi./ Resa del tronco spezzato/ nell’aria di gennaio –/ se solo riuscissimo a credere». Sono ovunque, più in generale, queste tracce di presenze per quanto rarefatte che danno consistenza allo scorrere del tempo nel quale siamo immersi: sono nell’aria, nell’acqua del mare, nel vento, nella luce, in un’alba. Sono in tutti gli elementi. Sono in ciò che non vediamo, anche «di là dallo sguardo terreno». Sono in un attimo, in un suono, in un gesto. Sono in ogni dove, in ogni quando, in tutto ciò che Benjamin chiamava «memoria involontaria».
Sono dove siamo disposti a scorgerle, a riconoscerle. Sono in una carezza, infine, che sentiamo sempre sopra di noi, ad accompagnarci giorno per giorno: «Un punto blu costante:/ fissità di sguardo/ mantieni, ti prego, alta la carezza/ sul capo mio chino/ sempre/ sempre». E si chiude proprio così, la raccolta, forse non a caso: su questi sei versi, forse i più belli di tutti, nei quali la grazia sfiora quasi la dolcezza di una preghiera.