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Memorie di una figlia di deportati russi

Memorie di una figlia di deportati russiMarc Beckmann/Ostkreutz dalla serie Anniversaries, 2004-2014

Storie Sulle tracce dei genitori, costretti durante la seconda guerra ai lavori forzati per supportare i soldati tedeschi del fronte orientale, Natascha Wodin riapre una pagina rimossa: «Veniva da Mariupol», L’Orma

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 9 dicembre 2018

Mentre si moltiplicano i romanzi scritti dai nipoti di uomini conniventi con il nazismo e dai figli di genitori che fiancheggiarono la Stasi, il caso di Natascha Wodin, nata in Germania nel 1945 da due displaced persons di origine russa, appare del tutto singolare. Nella sua opera prima, La città di vetro raccontava la storia dei suoi apolidi genitori che non vissero il nazismo da carnefici ma da vittime: portavano sul petto non la stella gialla di David, bensì il distintivo con la scritta «OST», vale a dire Ostarbeiter. Tra quelle pagine veniva anche raccontata, almeno in parte, la storia della madre, ora ripresa dall’autrice nel decisamente più maturo Veniva da Mariupol (traduzione di M. Federici Solari e Anna Ruchat, L’Orma, pp. 389, euro 21,00), quasi un gesto ricostruttivo per venire a patti con la propria infanzia.

Durante la seconda guerra mondiale, il padre e la madre di Natascha Wodin furono trasportati dalla Russia in Germania per essere messi ai lavori forzati a compensazione dello sforzo degli uomini tedeschi, impegnati sul fronte orientale. Passata questa tragica esperienza, i coniugi Wodin si ritrovarono a vivere fra Fürth e Norimberga in alcuni campi di accoglienza, per esempio il Valga-Lager riservato agli stranieri apolidi della Baviera. Natascha Wodin nacque appunto in una di queste strutture, quella di Fürth, di cui già riferiva il suo primo romanzo, dove aveva tratteggiato quell’affettuoso e sofferente ritratto della madre, Jewgenia Jakowlewna Iwaschtschenko, che si era suicidata all’età di trentasei anni, gettandosi nelle acque del Regnitz e lasciando Natascha, allora di dieci anni, con un padre violento, dal quale sarebbe presto fuggita, al prezzo di ritrovarsi senza un tetto.

Quando si era ormai rassegnata ad abbandonare le sue ricerche, la voce narrante si imbatte casualmente in un forum russo-tedesco, grazie al quale stringe amicizia con un certo Konstantin, che possiede una pagina web dedicata alla popolazione di origine greca del Mar d’Azov e che si offrirà di aiutarla nelle indagini. Ha inizio così una appassionante ricerca, la cui tensione aumenta via via ad ogni dettaglio che si aggiunge al quadro indiziario per culminare, infine, nei ricordi che l’autrice serba del suicidio della madre.

Dai registri parrocchiali e dagli atti amministrativi risalenti al 1920 ai quali Konstatin riesce ad avere accesso, viene fuori che la donna, di nobili origini, era parente di un noto filosofo. Wodin sceglie di raccontare questa storia con distacco, eppure l’emozione fa vibrare questa sua lingua apparentemente scarna.
La passione per l’indagine, da un lato, e l’amore per la madre, dall’altro inducono Natascha Wodin a cercare in Russia, ancora con l’aiuto di Konstantin, il maggior numero di informazioni possibili sui suoi parenti. Notizie sempre più precise e per certi versi sconvolgenti si aggiungono sulla nonna materna, la cui aristocratica famiglia possedeva una delle più lussuose tenute di Mariupol: non la gelida località ai margini della Russia che Natascha Wodin aveva immaginato, ma una calda città del sud, ambita meta di villeggiatura degli zar.

Gli ormai sbiaditi ricordi d’infanzia riprendono colore e vitalità, e incrociandosi con i documenti procurati da Konstantin recuperano alla memoria dell’autrice anche lo zio Sergej, che al fronte con l’Armata rossa cantava arie delle opere liriche della zia Lidija, confinata in un Gulag stalinista, e persino di un cugino, che aveva ucciso la propria madre. Alle memorie dell’autrice, ai frammenti di documenti e alle notizie estratte dal web quasi fosse una scatola magica, si uniscono alcune fotografie dell’album di famiglia, riprodotte nel romanzo, che contribuiscono al processo di rammemorazione del triste destino toccato a una dinastia i cui membri si dispersero sotto il peso della storia.

Dialogando con i ricordi d’infanzia, le immagini e le informazioni di cui Natascha entra in possesso raccontano di un destino individuale, quello della madre, che intersecandosi con le sorti della zia Lidija venne irrimediabilmente traumatizzato dalla violenza subita, fino ad arrendersi alla distruzione dei legami famigliari durante lo stalinismo e alla deportazione nella Germania nazista. Veniva da Mariupol affronta, così, un tabù della memoria collettiva tedesca, quella pagina dimenticata e complessa che fu la vita degli Ostarbeiter durante il nazismo e nella Germania del secondo dopoguerra, dove di quei deportati dalla Russia che furono costretti a vivere in campi di lavoro nessuno parve ricordarsi, già a guerra immediatamente finita.

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