Incapsulato tra Yorgos Lanthimos (in apertura), Alfonso Cuaron (il gala di mezzo) e Julian Schnabel (serata di chiusura), il 56esimo New York Film Festival ha inaugurato venerdì scorso, all’insegna del film d’autore «da Oscar». Ideata da Richard Roud (che lo diresse per 25 anni) e Amos Vogel per gettare un ponte tra il cinema Usa e quello europeo, a beneficio di un pubblico dell’upper west newyorkese soddisfatto da una dieta di un paio di titoli al giorno, la manifestazione curata dalla Film Society of Lincoln Center, con gli anni, è cresciuta un po’ nel numero dei film (al fianco del «main slate», oggi ci sono una sezione dedicata al documentario, una ai classici, una retrospettiva, qualche programma di cinema sperimentale e un’inscrutabile sezione «immersiva» chiamata Convergence, più numerosi incontri pubblici con autori e attori già in lizza per la stagione degli awards), ma è rimasta fedele al suo spirito originale, rarefatto, un po’ salottiero. Uno spirito che per decenni ha avuto un suo senso ma che – in quest’era di moltiplicazione del cinema, dei festival e dei canali da guardare- rischia di risultare poco vitale e poco curioso. Se non addirittura provinciale.

Rispetto ad anni recenti, manca in quest’edizione la prima mondiale che catalizza l’attenzione mediatica e, a parte la presenza immancabile di alcuni amici di sempre (Olivier Assayas, Claire Denis, Fred Wisema), l’impronta personale dell’attuale direttore del festival, Kent Jones, si sente forse più di tutto nella retrospettiva, dedicata a due grandi cinefili che hanno fatto storia, e che sono scomparsi quest’anno, il produttore/distributore Pierre Rissient e il distributore/esercente Dan Talbot. Per il resto, il programma eredita titoli già ampiamenti collaudati dal circuito internazionale – Kore-eda e Lee Chang Dong, i Coen e Godard, Garrel e Pawlikowski, Errol Morris e Christophe Honorè… Dall’Italia, Alice Rohrwacher e Roberto Minervini.

In mancanza di anteprime da Studio, è più forte quest’anno al NYFF la presenza del cinema indipendente americano. Arrivano da Sundance, i film di Paul Dano, Wildlife, e quello di Tamara Jenkins, Private Life, entrambi già acquistati, rispettivamente da IFC e Netflix, per una distribuzione Usa combinata, su piattaforma digitale e in sala. Private Life, una commedia dolce/amara che ogni tanto vira involontariamente nell’horror, con Paul Giamatti e Kathryn Hahn, coppia di intellettuali newyorkesi che tentano inutilmente di avere un figlio, è il primo film della regista di The Savages e Slums of Beverly Hills da dieci anni a questa parte.

«Her Smell» di Alex Ross Perry

Da Toronto, tra i titoli più attesi del festival è il nuovo lavoro di Barry Jenkins, If Beale Street Could Talk. Il regista di Moonlight vira sul film d’epoca, adattando il penultimo romanzo di James Baldwin, ambientato nella Harlem degli anni settanta. In omaggio a quella culla della New York afroamericana, una delle proiezioni del film è stata prevista all’Apollo, lo storico teatro di Harlem. Certo, una Harlem quella di oggi, completamente gentrificata. Ripulita per i turisti e colonizzata dagli imprenditori immobiliari per yuppies e il loro corrispettivo black, i buppies. E dove il pubblico del NYFF traghetterà non con l’A train di Duke Ellington, ma in Uber. Quel feeling ripulito, addomesticato, quasi leccato, che correva già nel Dna di Moonlight , è in piena vista in Beale Street, realizzato con il sostegno delle casse ben fornite di Annapurna. Costumi da stilista, strade e interni curatissimi, (Mark Friedberg, lo scenografo, è un abituale collaboratore di Todd Haynes e Wes Anderson), musica wall to wall, primi piani interminabili, è la storia di Fonny (Stephan James, il galeotto del terzo episodio di Moonlight) e Tish (Kiki Layne), due figli della piccola borghesia afroamericana di Harlem, amici da quando erano bambini e giocavano con la schiuma nella vasca da bagno; e la cui intimità fraterna sboccia in una storia d’amore, durante una sera spesa giù al Village.

Il ritratto delle rispettive famiglie è schematicamente tratteggiato il giorno in cui Tish torna a casa e confida a sua madre (Regina King, che buca magnificamente la patina del film) di essere rimasta incinta – generosa e comprensiva quella di lei, mentre quella di lui (forse leggermente più benestante) è funestata da una madre iper-religiosa e da due sorellastre come quelle di Cenerentola. Il problema di Tish, e delle due famiglie, è che Fonny è in prigione, accusato di aver violentato una donna portoricana nel Lower East Side. L’avvocato che lo difende è un giovane bianco, fresco di Ivy League, un ragazzo ben intenzionato, ma che può poco di fronte alla versione dei fatti di un poliziotto bianco e corrotto e una testimone/vittima confusa che improvvisamente scompare del tutto. Il film si gioca tra le visite in prigione di Tish a Fonny, i flash back della loro storia, e il crescendo verso il processo, che include un disperato viaggio della mamma in Porto Rico, alla ricerca della testimone fuggitiva. La storia, i personaggi, i precisi dettagli sociali e culturali, come descritti da Baldwyn, sarebbero vividi, emozionanti, ma non respirano/ispirano, schiacciati come sono da un formalismo maldestro, eccessivo, che fa pensare a Won Kar Wai senza sesso, moralista.

Allo spettro opposto della sincerità un po’ insincera di Beale Street, è l’ultimo lavoro di un regista che non fa mai nulla per piacere. Anzi, ogni tanto coltiva l’effetto opposto. Dopo gli interni frustrati e un po’ perversi della Brooklyn di Golden Exit, Alex Ross Perry fa un film che appare -stilisticamente e emotivamente- tutto proiettato verso l’esterno, una specie di Opening Night del rock, con – invece di Gena Rowlands attrice – Elizabeth Moss, leader di un gruppo musicale all girls, il cui talento e la cui follia autodistruttiva mantengono e tormentano le colleghe, il manager, la madre e l’ex marito. Tour de force che si snoda sempre sopra le righe e quasi tutto tra i camerini, corridoi e il backstage di un concerto che lei non vuole fare, Her Smell si vive come una corsa in ottovolante. Ma dal suo spirito così violentemente in your face trapela un mistero e un dolore che l’intimismo di Beale Street non riesce mai a trasmettere.