Duecentocinque anni fa nelle Marche un ragazzo appena maggiorenne mai uscito dal suo borgo, quando i borghi erano luoghi da cui volere giustamente fuggire più che da ripopolare, componeva versi capaci di fissare per sempre lo scarto tra un confine terreno e il cosmo, tra l’eternità e il presente necessario (per avvertire la vertigine di un tutto indefinito); lo faceva con gli endecasillabi dell’ Infinito una delle liriche italiane più famose, centrale nelle antologie scolastiche e una delle poche, forse anche in ragione della sua sfolgorante brevità, che ancora si osa fare mandare a memoria agli studenti.

Dustin Hoffmann, diretto da Giampiero Solari, l’ha declamata a modo suo in un fortunato spot promozionale della Regione Marche nel 2010, dando l’assist a più di un claim: le Marche infinite, le scoprirai all’infinito etc.

Quasi nessuno invece sa che, sempre nel 1819, il Conte Giacomo Leopardi compose versi di tutt’altro tenore, apparentemente senza tensione al cielo ma radicati profondamente alla materia, suscitati da un articolo di cronaca giudiziaria locale.
Il titolo della canzone di dieci stanze da quattordici versi ciascuna è molto articolato Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo e non compare in nessun testo di letteratura per le scuole.

Il suo autore non la vide mai pubblicata; conservata da Pietro Ranieri la prima edizione è infatti del 1906, sessantanove anni dopo la morte di Leopardi che subì la censura del padre Monaldo – sempre lui – che nel 1819 non lo aveva ancora lasciato libero di vedere con i suoi occhi cosa diamine ci fosse dietro quella siepe.
Eppure a certe anime basta l’immaginazione per figurarsi l’infinito e l’articolo di un giornale locale per provare empatia e straziarsi nell’immedesimazione.

Il fatto di cronaca è dei più terreni: femminicidio, sarebbe rubricato oggi, ai danni di una ventitreenne pesarese, per mano del suo amante (un medico chirurgo) nel tentativo di farle abortire al quinto mese di gravidanza il figlio concepito insieme. La ragazza, di buona famiglia, sposata e già madre, si chiamava Virginia Del Mazzo.

Il carnefice, come lo chiama senza tanti giri di parole Leopardi, era Angelo Lorenzini, cinquantenne «chirurgo condotto» in Pesaro, cui il marito della ragazza, impiegato alla Dogana e di stanza nel ferrarese, l’aveva raccomandata in sua assenza.

La frequentazione tra i due era diventata una relazione ovviamente clandestina, la premura richiesta una specie di amore; l’unica però ad avere davvero a cuore la donna era stata la sua domestica Marianna Bettarelli, che denunciò le circostanze sospette della morte di Virginia, i fatti stonati (le tre bacinelle di sangue che lei stessa vuotò, l’arrivo spontaneo del chirurgo) tra il 28 e il 29 gennaio 1819 e procurò la riesumazione del corpo determinando la reclusione del chirurgo e la sospensione dall’esercizio della sua professione.

Lo sancì la sentenza del collegio giudicante nel nome di Pio VII, il Tribunale criminale presieduto dal delegato apostolico Monsignor Ludovico Gazzoli, che dopo due anni venne però ribaltata in appello dal Tribunale di Macerata grazie alla subdola arringa dell’avvocato difensore. Lorenzo Romiti, questo era il nome del legale, fece leva sull’irrilevanza della teste, perché donna e per giunta «servente», e sulla professionalità e l’illibata condotta del chirurgo che, nel macellare frettolosamente la donna, quasi le fece un favore, coprendo pietosamente lei, il frutto del peccato, la sua colpa e magari qualche malattia venerea.

Nella difesa di secondo grado dell’avvocato Romiti lo sprezzo per la vittima, la cui morte fu imputata alle complicazioni di una febbre infiammatoria slegata dall’evento abortivo, è di agghiacciante familiarità, come tutto il ribaltamento della scena del crimine dove l’assassino diventa eroe e la testimone correa.

A leggere la documentazione (il testo dell’arringa difensiva, il Ragionamento di Romiti stampato a Pesaro nel 1820 e conservato presso la Biblioteca Oliveriana, il fascicolo del processo presso l’Archivio di Stato sempre a Pesaro) colpisce la modernità del passato quanto l’irredimibile, primitiva arcaicità del presente. E soprattutto colpisce la capacità di empatia, indignazione e coraggio del Giovane Favoloso. Nello scritto che Monaldo Leopardi trovò scandaloso e passabile di denuncia, Giacomo esprime una partecipazione quasi fisica allo strazio della sua coetanea, tormentata nel corpo dall’aborto condotto con imperizia e crudeltà (come comprovato in primo grado dal rilievo autoptico) e tradita nell’amore.

Non c’è mai condanna nelle parole del poeta ma totale immedesimazione con la vittima, senza l’ipocrisia, il tono allusivo, l’indulgenza padreternalistica dei dotti commenti social e politici oggi a similari fatti di cronaca nera.

Questi versi di Leopardi, liquidati tradizionalmente tra gli altri Scritti, disponibili alla voce dedicata su Wikipedia, sono ancora perlopiù sottaciuti; hanno un incedere impetuoso, non la purezza formale dell’Infinito o di altre liriche, ma di certo per la portata dirompente di contenuto e compassione meriterebbero specialmente oggi di essere fatti conoscere a un pubblico, magari giovane. Per ora ci hanno pensato in pochi: tra questi Giovanni Mestica, filologo e Renato Di Ferdinando, in un testo pubblicato nella rivista Studia Oliveriana del 1999. Donatella Donati, che lo ha elaborato in una drammaturgia edita da Osanna Edizioni nel 2012, la stessa biblioteca storica pesarese e la rassegna «Macerata Racconta» hanno ospitato negli ultimi anni un paio momenti convegnistici dedicati alla vicenda e a questo scritto; ma sono state rare quanto encomiabili emersioni locali rivolte alla famosa solita nicchia.

Ultimo tentativo di diffusione e lettura pop connessa alla stagione presente e viva e al suon di lei lo ha fatto una produzione di Galassie Entretainment, il reading «Memorie come polvere. Polifonia per Virginia Del Mazzo da Giacomo Leopardi a Bessie Smith», di e con Paola Galassi e Romina Antonelli.

Andata in scena al PAC (Performing Arts Center) di Pesaro il 29 marzo, lo spettacolo annoda la storia di Virginia del Mazzo e il canto di Leopardi, a più moderne vicende di violenza e ai canti delle donne del blues, le advice songs o canzoni avvertimento dove le donne afroamericane hanno messo in musica le esperienze esemplari di dolore e riscatto vissute in relazioni segnate da violenza e sopraffazione.

La lettura scenica che sarà portata nelle scuole parla con le voci di Ma Rainey, Odetta, Bessie Smith (e ha come riferimento il libro Countin’ the blues di Elisa De Munario, ed. Arcana) delle parti processuali e naturalmente di Giacomo Leopardi che scrive prima dell’assoluzione di Lorenzini, carnefice nefando uso ad affondar nei corpi putri l’acciaro, cui si rivolge apertamente e apertamente disprezza «vieni, mira crudel, questo giuravi a lei ne la suprema ora di sua costanza?».

Di contro la dolcezza verso Virginia, la compassione da cui non trova loco, è come quella per Silvia «morir per opra di quel che tanto amavi, e così presto per l’età verde, e in barbaro cruciato, e non lasciar qua sopra altro che ’l sovvenir del tuo peccato. Per consolarti io canto o donna mia, canto perché; o so bene che non ha chi m’ascolta un cor di pietra né guarda il fallo tuo ma le tue pene». Ha una commovente fiducia, il poeta, nei lettori del futuro, del fatto che terranno in conto il dolore della donna piuttosto che giudicarla. Il primo passo è che il suo canto, come quello di tutti coloro che denunciano un sopruso, arrivi forzando archivi e damnatio memoriae, che chiedendo alla polvere, qui il senso del reading e del suo titolo, questa risuoni e racconti la verità.