Cultura

Memoria, dolore e scontro tra generazioni alla ricerca di una lingua comune

Memoria, dolore e scontro tra generazioni alla ricerca di una lingua comuneImmagine Pixabay

Narrativa «Fervore», l’esordio narrativo del londinese Toby Lloyd pubblicato nei Bloom di Neri Pozza. Una famiglia inglese e borghese in cui ciascuno interpreta l’identità ebraica in modo diverso, ma tutti sono costretti a misurarsi violentemente con la realtà in cui vivono

Pubblicato circa un mese faEdizione del 30 agosto 2024

C’è un nocciolo duro e centrale di dolore che alberga nei Rosenthal, la famiglia che è la protagonista assoluta di Fervore di Toby Lloyd, edito da Neri Pozza (traduzione dall’inglese di Silvia Albesano, pp. 336, euro 19). Destabilizzante e iconoclastico il romanzo racconta di una famiglia ebraica e dei suoi traumi intergenerazionali che attraversano il linguaggio delle parole – ne descrive l’oltre, il non detto, la sua sostanza liquida – per albergare nel profondo della psiche assumendo la forma di un bimbetto accompagnato alle camere a gas o quella di un’ortodossia ebraica bigotta incapace di vedere la singolarità degli individui. O ancora l’impossibilità di comprendere i tre figli adolescenti che – come tutti gli adolescenti – navigano in acque oscure.

MA C’È ANCHE il Dio ebraico declinato nella sua variante più severa o in quella più mistica: un padre geloso e vendicativo o il soffio di vita che tutto comprende e tutto accarezza. Un dolore che alberga singolarmente nella vita di ciascuno dei protagonisti chiamati ad affrontare il destino con gli strumenti che loro – come noi – hanno a disposizione.

Toby Lloyd, londinese, ha studiato a Oxford e conseguito un master in scrittura creativa alla New York University, Fervore è il suo primo romanzo e racconta il mondo e la vita di una famiglia inglese e borghese in cui ciascuno interpreta l’identità ebraica in modo diverso ma tutti sono comunque costretti al confronto, violento, con il modello famigliare. Sembrava che andasse tutto bene fin quando non muore nonno Yosef portandosi dietro un’epoca, la nuora Hannah decide di pubblicarne la storia e la figlia Elsie sparisce per tornare alcuni giorni dopo. Giorni che resteranno bui per tutti e che nell’oscurità trascinano l’intera famiglia: giorni di assenza che fanno da catalizzatore del non detto, dell’affetto intenso e disfunzionale che lega il nucleo familiare. L’assenza di Elsie solidifica le differenze e le distanze: l’entusiasmo da neofita dell’ortodossia di Hannah – sprovvista di strumenti e di retroterra che sostanzi l’eccitazione della lettura e della interpretazione dei testi -, la reclusione nel dolore e nel digiuno del padre Eric.

IL DOLORE ATTRAVERSA anche la terza generazione trascinando con sé Gideon e Tovyah fino al dramma, tutta contemporaneo, di Elsie affetta da autolesionismo e disturbo alimentare accompagnata da venature di onnipotenza. Eppure, sempre, sullo sfondo, resta nonno Yosef e la colpa di essere sopravvissuto ai campi di sterminio insieme a quella di essere stato un collaborazionista. C’è l’impeto del racconto, vanesio e arrivista della nuora Hannah, che ossessionata dal successo compie – davvero – il più terribile, e temibile, dei peccati: aver immobilizzato le vicende di famiglia sull’inchiostro e averle uccise: «Non aveva dato una seconda vita a Yosef sulla pagina, aveva fatto il contrario, Anche se le persone sono morte le uccidi una seconda volta. Non possono muoversi, non possono respirare, possono solo starsene lì, rigide, in qualunque forma tu le abbia costrette. E, se ne hanno la minima possibilità, si vendicano», perché una volta scritta la storia non c’è remissione e assoluzione possibile.

Un romanzo, quello di Toby Lloyd, che indaga sui limiti della facoltà di raccontare gli affetti e di condividere i legami, che ne azzera la proprietà transitiva e investiga la possibilità degli incontri di essere davvero realizzabili, che lascia insoluta eppure eccezionalmente raccontata la risposta alla questione del diritto alla vita privata, al rispetto della propria storia anche nei legami più profondi e inestricabili: «I nostri fantasmi sono privati quanto i nostri sogni».

L’identità ebraica è centrale e multiforme – di questa fanno parte tanto i rapporti familiari, quanto l’antisemitismo e il rapporto con Israele, i riti e le congregations, i rabbini e le festività -, ma appare sostanzialmente disfunzionale come le uniche relazioni possibili che la famiglia Rosenthal è capace di dispiegare.

L’UNICO SGUARDO PLAUSIBILE è quello terzo di Kate, ebrea «forse» e comunque un’intrusa, che cerca un rapporto con Tovyah, sembra quasi lambirlo, per poi esserne allontanata dal farsi della tragedia. D’altro canto se «tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo», scrive Tolstoj, e i Rosenthal non fanno eccezione, ebrei o meno.

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