Conobbi Roberto Memmo nell’ultimo trentennio della sua lunga vita ma lo incontrai ancora poche settimane prima della sua scomparsa all’inizio del 2021: parlava poco ma guardava sempre con un’intensità sorprendente.

Non era un uomo come tutti gli altri: di estrema gentilezza, aveva, come accennavo, uno sguardo deciso che poteva risultare talvolta quasi inquietante, mentre la parola era sempre amichevole, affettuosa. I movimenti e il gestire, agilissimi come quelli di un giovane, quasi fino alla fine. Chiedeva opinioni con sicurezza e non accettava risposte evasive: quando voleva una cosa lo faceva capire e spesso riusciva ad ottenerla, ogni mezzo era tenuto in considerazione per avvicinare l’interlocutore quasi incantandolo, gli occhi traslucidi facevano il resto.

Portò a termine molte cose straordinarie nella sua esistenza ma quella per me più impressionante fu l’aver creato la fondazione artistica che porta il suo nome, dove riuscì a ideare, con l’aiuto di esperti scelti attentamente, una serie di esposizioni che mi interessarono moltissimo al punto da averne recensite almeno una decina. Quella che ricordo con maggior emozione fu quella su Diego Velázquez nel 2001, forse la più bella rassegna del sommo pittore spagnolo realizzata fuori della Spagna: un vero e proprio tour de force per il quale riuscì ad avere l’appoggio del Museo del Prado e addirittura quello del Re Juan Carlos.

L’immagine-civetta della mostra di Jean-Michel Basquiat, Fondazione Memmo 2008

Nel dicembre del 1991 aveva avuto invece luogo una rassegna che includeva gli importantissimi marmi del Canova all’Ermitage, che mai erano usciti quasi al completo dalla Russia, quasi tutti acquistati ai tempi della vita del grande scultore italiano e in alcuni casi eseguiti direttamente per i suoi clienti.

Ero già suo amico ma Memmo non era uomo da non inseguire passo per passo ogni sua idea.

Mi aveva già chiesto, prima che la mostra iniziasse, di recensire quel che era riuscito a fare, ciò che accettai subito anche perché fino ad allora non mi era stato possibile di vedere i celebri originali di San Pietroburgo.

Una mattina però – e fu la sola volta che mi accadde – ebbi una telefonata da Indro Montanelli che dirigeva il giornale sul quale scrivevo allora. Montanelli voleva ricordarmi di non dimenticare di recensire l’esposizione: «Fai attenzione, ti prego. Memmo mi ha chiamato ieri dopo avermi già fatto ricevere un paio di messaggi attraverso dei miei più cari amici di gioventù».

Non fu davvero uno sforzo accontentare Indro e Roberto e quando chiamai il secondo per rassicurarlo che avrei fatto quanto voleva, mi rispose: «A che ora vieni? Voglio aspettarti di persona e vedere la mostra insieme a te».

Credo che si fidasse poco della maggior parte degli esseri umani e comunque non era persona che lasciava nulla al caso. Questa è stata forse la migliore lezione che ho avuto da lui: la perseveranza è una delle leggi dell’esistenza a cui non bisogna rinunciare mai; ascoltare tutti, aiutare i giovani, anche i meno giovani, credere nella bellezza e parlare con coloro che cercano di capirla.

Nelle molte rassegne che fece inscenare, gli argomenti furono molto diversi e andavano dall’antica arte egizia (da Nefertari a Cleopatra) ad una mostra assai originale sulle collezioni reali svedesi a cominciare da quella appartenuta alla Regina Cristina, per finire con dei bronzi del Valadier. Non rinunciò comunque a mostre di artisti vicini ai tempi moderni: in alcune occasioni le scelte erano relativamente facili, comprendendo pittori famosi e noti a tutti come Paul Klee, Monet e addirittura Picasso e persino il più difficile e morboso genio di Lucien Freud.

Un’altra mostra che per me fu di grande interesse fu quella su Jean-Michel Basquiat, del 2008. Non nutrivo grandi speranze su quella rassegna ma quando vidi la scelta del materiale rimasi molto impressionato (mai dare opinione di quel che abbiamo visto solo in fotografia).

Scrissi allora su Il Sole 24 ore: «Entri ed è buio ma l’oscurità non è tanto nella luce fioca quanto nell’atmosfera cupa, quasi minacciosa dei dipinti di Jean-Michel Basquiat. Che sono, che dicono, queste immagini più vicine alla morte che alla vita? Un pantheon di divinità negre, visioni ataviche del male o piuttosto simboli che, evocandolo, intendono sconfiggerlo o allontanarlo? Qui mi pare di respirare un odore familiare, perché? Basquiat è negro, io no; Basquiat nacque a New York alla fine del 1960, io un quarto di secolo prima in un’isola dei Caraibi; sono di famiglia spagnola, lui di padre haitiano e di madre portoricana. Forse queste sue origini etniche spiegano la mia sensazione, Haiti e Portorico sono isole vicine a quella dove nacqui io, Cuba: tre rettili di squame e di terra separati dal mare, spina dorsale dei Caribi, vertebre nere e vertebre bianche, cranio europeo, braccia e gambe africane ballano per proprio conto al suono di cicloni e di tamburi».

Roberto Memmo e il re di Spagna Juan Carlos all’inaugurazione della mostra di Velázquez a Roma, 2001

Non era quella la visione che avevano tutti di quel bizzarro artista.

A me sembrava del tutto normale parlare nei termini utilizzati perché immagini del genere le avevo viste fin da bambino nella città in cui ero nato, anzi il vero antenato di Basquiat ai miei occhi era il pittore cubano Wilfredo Lam (1902-’82) che io ebbi l’opportunità di conoscere da ragazzo a Cuba e la cui opera è un perfetto antefatto di quella di Basquiat, spiegabile forse non solo col luogo di nascita ma anche nelle origini razziali di Lam che aveva antenati neri, bianchi e cinesi.

Erano cose che intuivo bene fin dalla mia nascita e che andrebbero ricordate prima dell’influsso di altri pittori apparentemente, solo apparentemente più vicini a Basquiat come il suo grande amico Andy Warhol.

La mostra ebbe grande successo a Roma ma certamente per motivi diversi dai miei: si metteva in rapporto Basquiat con New York e non con Cuba.

Un uomo fuori dal comune ma che non la pensa sempre come me, il ben noto critico d’arte Achille Bonito Oliva, mi scrisse per congratularsi ma per me quel che avevo scritto era ovvio in quanto suggerito dalla mia stessa storia personale. Credo però che senza la mostra di Roma non l’avrei, forse, capito facilmente.

Avrei dovuto chiedere a Roberto Memmo perché Basquiat gli fosse interessato. Ho tentato qui di spiegare le mie motivazioni che di certo non saranno state le sue ma tutte le strade sono buone se si arriva alla destinazione giusta.