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Melville, un magnete divino per caricare la penna del condor

Melville, un magnete divino per caricare la penna del condorAmbroise Louis Garneray, «A panorama of Portsmouth harbour with the line of prison hulks» (circa 1809-1814)

Lettere americane A duecento anni dalla nascita dell’autore di Moby-Dick, Liberilibri riedita la raccolta delle lettere a Hawthorne, scritte tra il 1850 e il 1852 con la furia retorica di Ahab, e la disperazione di Ishmael

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 27 ottobre 2019

Sebbene consumata in un lasso di tempo relativamente breve, l’amicizia tra Herman Melville e Nathaniel Hawthorne ha acquisito, nella tradizione letteraria statunitense, uno status che non è esagerato definire «mitologico». In parte, lo si deve al fatto che, nell’intervallo tra il loro primo incontro sulle colline del Berkshire, nel Massachusetts, il 5 agosto del 1850, e quello del novembre 1856 a Liverpool, dove Hawthorne era stato nel frattempo nominato Console americano e i due si parlarono per l’ultima volta, uscirono alcune tra le loro opere maggiori.

Quando conobbe Melville, Hawthorne aveva appena pubblicato La Lettera scarlatta, cui avrebbero fatto seguito, nel 1851, La casa dei sette frontoni e, l’anno seguente, Il romanzo di Valgioiosa. Per parte sua, Melville in quei due anni diede alle stampe Moby-Dick e Pierre, per poi scrivere racconti divenuti (nel secolo seguente) celeberrimi: Bartleby e Benito Cereno. Secondo una consolidata tradizione critica, nonostante nel 1850 Melville avesse già scritto cinque romanzi di ambientazione marinara, solo dopo l’incontro con lo scrittore di quindici anni più grande riuscì a realizzare quel salto qualitativo che gli permise di produrre i capolavori ai quali, ancora oggi, deve la sua fama. Questa teoria, che assegna a Hawthorne un ruolo tanto importante, è basata in buona parte su un pugno di lettere che i due si scambiarono tra il 1850 e il 1852; ma di quel carteggio sono sopravvissute solo le lettere scritte da Melville, mentre quelle di Hawthorne sono andate perdute, distrutte probabilmente dallo stesso destinatario.

Meglio della Bibbia

Ora, nel bicentenario della nascita di Melville, le Lettere a Hawthorne (pp. LVIII+126,€ 9,00) vengono riproposte da Liberilibri, lungimirante editore marchigiano, in una edizione aggiornata, con testo a fronte, sempre a cura di Giuseppe Nori, che aveva già tradotto la prima edizione del 1994, essendo di Melville uno dei nostri più acuti e intelligenti lettori. In queste lettere vive un documento del ruolo di catalizzatore – «magnete divino» – che il più anziano collega ebbe per Melville. Qualcosa di simile sarebbe successo, di lì a poco, a Walt Whitman, che confessò come, solo dopo aver letto Emerson, fosse giunto al suo punto di «ebollizione».

Anche per Melville, il rapporto letterario e affettivo con Hawthorne è non soltanto un moltiplicatore di energie, ma qualcosa di esaltante e persino di mistico: «Averti conosciuto mi persuade, più della Bibbia, della nostra immortalità». Molte lettere abbondano, peraltro, di metafore religiose. Dopo che Hawthorne (cui il romanzo è dedicato) gli comunica il suo apprezzamento per Moby-Dick, che aveva lasciato freddi molti recensori, Melville moltiplica le effusioni: «ho provato un sentimento panteistico… il tuo cuore batteva nel mio costato e il mio nel tuo, ed entrambi in quello di Dio. Dentro di me, in questo momento, c’è un senso di sicurezza indicibile per il fatto che tu hai capito il libro. Ho scritto un libro malvagio e mi sento immacolato come l’agnello».

Non sorprende il fatto che questo carteggio sia oggi assai studiato da chi intende leggervi quelle tensioni omoerotiche che percorrerebbero l’intero corpus melvilliano, da Typee sino al racconto postumo dedicato al «bel marinaio» Billy Budd. È una prospettiva critica legittima; tuttavia, nel suo lungo e articolato saggio introduttivo, Nori preferisce inserire le vicende strettamente biografiche nella cornice più ampia delle «lettere americane». Prendendo come pietra angolare del suo ragionamento la categoria romantica di «identificazione simpatetica», il curatore legge le lettere come «esercizi spontanei di immedesimazione psicologica in cui Melville usa l’amico come specchio per cercare e definire la propria identità letteraria», avendo cura di sottolineare le aporie che si nascondono dietro questa strategia, e che lo porteranno infine a relativizzare «la potenzialità di espansione universale dell’io».

Nelle opere successive a Moby-Dick, Melville privilegerà il sentimento dell’incomunicabilità, creando «figure disperate quali Bartleby … individui solitari e isolati, esempi di patimento e miseria che stimolano profonde, eppur fallimentari reazioni emotive da parte dei testimoni che assistono alle loro vicende».
L’esaltazione romantica dei poteri della letteratura, che invade le più note di queste appassionate ma spesso incongruenti lettere, se per un verso ricorda quanto Shelley aveva detto dei poeti, chiamandoli «misconosciuti legislatori del mondo», d’altro canto viene costantemente minata dalla consapevolezza che ogni testo è un prodotto da vendere sul mercato. È all’esigenza di venire riconosciuto da un pubblico che disprezzava, in realtà, per il suo conformismo, che Melville dedica alcuni dei passi più spesso citati. «I dollari sono la mia dannazione … Ciò che mi sento più spinto a scrivere, quello viene bandito – non rende. Eppure, nell’insieme, non riesco a scrivere nell’altro modo. Così il risultato è un garbuglio, e tutti i miei libri sono delle rappezzature».

Idealizzando Hawthorne (ben al di là del lecito) in quanto ribelle indifferente agli umori dei lettori – «Egli dice NO! con voce di tuono» – Melville vagheggia una sorta di «contro-sfera pubblica», rifugio per gli adepti della «Grande Arte di dire la Verità». Qui i contorni, sebbene radicati nel contesto americano di metà Ottocento, assumono una diversa ampiezza, per intersecare quella dimensione «eroica» dell’autorialità che parte dal Rinascimento – se non addirittura da Omero – e arriva a scrittori con ambizioni enciclopediche come Joyce. Il «fallimento» dell’artista diviene così, come scrive Melville in una recensione dei racconti di Hawthorne (che forse avrebbe meritato d’essere inserita nel volume perché è anch’essa a suo modo una «lettera» all’amico), «la prova più vera della grandezza».

L’incoerenza, l’incompletezza, la frammentarietà dell’opera d’arte si propongono come specchio fedele di un mondo in cui le tecniche narrative ereditate dalla tradizione sono percepite come inadatte agli scopi preposti. Nelle lettere si colgono echi non solo della furia retorica di Ahab, ma anche della disperazione del narratore Ishmael, che per trasmettere l’immensità di ciò che deve raccontare invoca «una penna di condor! e per calamaio il Vesuvio!». Eppure, paradossalmente, l’esaltazione della letteratura si fa prerequisito della sua dissoluzione. Se la Verità è inesprimibile, la scrittura non potrà che essere menzognera.

Comunque a disagio
La critica spietata che Melville rivolgerà nei confronti di qualunque ordine del discorso – letterario, metafisico, razionalistico – nel suo ultimo romanzo, Il truffatore di fiducia, più che negare il culto romantico dell’artista ne è un lucido, disincantato rovesciamento. Incontrandolo per l’ultima volta proprio nell’anno in cui usciva questo romanzo, e descrivendolo come un uomo che «non riesce a credere né a sentirsi a suo agio nel suo non credere», Hawthorne colse in pieno questa irrisolta tensione.

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