«Me ne frego delle liturgie!», «onore ai fondatori e ai militanti!» e «non rinnego le mie idee!». Non sono cori da stadio da curva neofascista. Sono le dichiarazioni di Ignazio La Russa, Presidente del Senato, e di Isabella Rauti.

Sottosegretaria alla Difesa. Esponenti di primo piano della «comunità» post-fascista del governo Meloni. Entrambi hanno sentito il bisogno, nei giorni in cui ricorre il 75° anno della Costituzione nata dalla Resistenza, di celebrare la nascita del Msi ovvero di quel partito di reduci collaborazionisti di Salò che con la fondazione della Repubblica non ebbe mai nulla a che fare. A supporto di La Russa e Rauti è intervenuta ieri la Presidente del Consiglio (reduce dalle video-lacrime esposte al tempio ebraico di Roma) riproponendo falsi storici, omissioni e narrazioni posticce. E ora la Comunità ebraica di Roma e l’Unione delle comunità ebraiche tornano a condannare con forza questo «nostalgismo».

Rovesciando gli eventi ed il senso della storia, Meloni ha provato a sostenere che sia stato il Msi a «traghettare verso la democrazia milioni di italiani usciti sconfitti dalla guerra». Al netto dell’immaginario meloniano questo ruolo fondamentale venne svolto dai gradi partiti di massa antifascisti: Democrazia cristiana, Partito comunista, Partito socialista che assolsero il compito di socializzare ed alfabetizzare alla democrazia un popolo abituato da Mussolini, e dai suoi sottoposti come Giorgio Almirante, a «credere, obbedire e combattere»

Nella storia in versione meloniana, il Msi avrebbe «avuto un ruolo molto importante nel combattere la violenza politica e il terrorismo». Fu forse questo il senso del rientro nelle fila missine il 21 novembre 1969 del gruppo (fondato da Pino Rauti) Ordine Nuovo responsabile delle stragi di Piazza Fontana 1969, della questura di Milano 1973, di Piazza della Loggia 1974? Un rientro che «tutto il partito saluta con gioia», titolò Il Secolo d’Italia.

«Era un partito – ha insistito impavida Giorgia Meloni- che aveva la responsabilità di accompagnare persone che altrimenti avrebbero fatto scelte diverse». La realtà racconta che il Msi accompagnò questi figuri in ben altri lidi.

Alcuni direttamente in seno ai suoi organi dirigenti come Rauti, Carlo Maria Maggi (condannato per la strage di Piazza della Loggia del 1974 e nel 1969 già membro del comitato centrale missino) o Paolo Signorelli (membro del comitato centrale del Msi, condannato per banda armata e processato e assolto per gli omicidi dei giudici Mario Amato e Vittorio Occorsio nonché per la strage di Bologna). Altri in cosiddetti «corsi di formazione politica», come quelli di Cascia del settembre 1969 o di Rieti del settembre 1970 cui presero parte militanti e dirigenti missini quali Delfo Zorzi (processato e assolto per la strage di Piazza Fontana) e Massimiliano Fachini (condannato per banda armata e processato e assolto per le stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna). Nel Msi militarono anche Stefano Delle Chiaie e Franco Freda, già iscritto al Fronte della Gioventù e poi individuato come uno dei responsabili della strage del 12 dicembre 1969.

Erano gli anni in cui Almirante, nel congresso nazionale del 21 novembre 1970, minacciava il Pci: «Noi prepariamo la gioventù all’eventualità di uno scontro frontale, on. Berlinguer!».

Gli stessi anni in cui, nella Tribuna Politica trasmessa sulla Rai il 25 maggio 1970, il segretario missino auspicava per l’Italia un colpo di Stato sul modello della Grecia dei colonnelli contro il comunismo. Gli stessi anni in cui, nel novembre 1971, il procuratore generale di Milano Luigi Bianchi D’Espinosa aprì un’inchiesta contro Almirante ed il Msi per ricostituzione del partito fascista a seguito delle continue violenze squadriste e degli attentati che videro protagonisti militanti ed esponenti del partito. Il 24 maggio 1973 la Camera dei deputati concedeva l’autorizzazione a procedere contro Almirante mentre il 6 giugno 1973 prese avvio il processo contro Ordine Nuovo che ne determinò poi lo scioglimento.

Il Msi non fu affatto «qualcosa di assolutamente presentabile» come sostiene Meloni. E purtroppo non si affacciò al governo solo nel 1994. In quell’anno, finite la Guerra Fredda e la «prima repubblica», gli eredi di Salò varcarono la soglia che nel 1960 era stata chiusa dal moto delle classi popolari che costò i morti di Reggio Emilia e della Sicilia, caduti sotto il piombo della polizia del governo Tambroni sostenuto dai fascisti in Parlamento. Un partito tanto impresentabile da spingere in quei giorni dirigenti della Resistenza come Sandro Pertini a ricostituire a Genova il CLN per impedire il congresso del Msi, in quella città medaglia d’oro della Resistenza dove i nazisti firmarono la resa nelle mani di un operaio comunista, il comandante partigiano Remo Scappini. Questo accadeva quando la storia aveva un senso sulla pelle viva del Paese.

Oggi, nel giorno in cui rivendica la propria identità postfascista, Meloni lancia la sua minaccia alla Costituzione attraverso l’indicazione del presidenzialismo come deformazione finale dell’eredità della Resistenza e come «messa a sistema» della disuguaglianza di genere, del classismo sociale e della discriminazione etnica dei migranti. Un programma impresentabile. Ieri come oggi.