Fa quello che le viene meglio e che si è allenata a fare a lungo all’opposizione: attacca. Anche se adesso è al centro dei banchi del governo, con cinque ministri maschi a destra e cinque ministri maschi a sinistra che hanno in media vent’anni più di lei. Giorgia Meloni ha un unico registro, quello vittimistico aggressivo, con il quale neanche al senato, dove interviene al termine del dibattito sulla fiducia, riesce a parlare con un po’ di concretezza dei suoi programmi. Ma che le serve per infilzare quelli che adesso siedono dove prima stava lei, all’opposizione.

Per adesso è efficace, retoricamente efficace per quanto povera nei contenuti. Ma sentendola non ci si può non chiedere se questo registro l’aiuterà effettivamente a governare o invece la metterà nei guai. Non solo con il paese che deve adesso indirizzare e non sfidare, ma più immediatamente con la sua maggioranza. Che alla seconda occasione – su due – in cui parla da presidente del Consiglio a nome della coalizione, la sente dilungarsi nella critica ai governi precedenti, a cominciare da quello Draghi in cui sedevano tutti i suoi alleati, e rivendicare l’unica posizione giusta: quella di Fratelli d’Italia. Al suo fianco e facce di Salvini e Tajani non sono allegre. Il passaggio da capo partito a capo del governo non è semplice, la distanza tra i due ruoli è assai maggiore dei cinquecento metri che separano via della Scrofa, la sede di FdI, da palazzo Chigi. Meloni su quella strada non ha fatto ancora un passo. Può essere un limite, il maggior limite. Ma è anche vero che di fronte alle enormi difficoltà che avrà, oggettive o legate alla pochezza del governo che ha messo in piedi, la vecchia propaganda sarà sempre una via d’uscita. E non sarà la prima, soprattutto a destra, a continuare la campagna elettorale dopo aver vinto le elezioni, dal governo.

Nel voto di fiducia, come previsto, nessun problema. Prende tutti i 115 sì della sua parte e anche cinque astenuti (gli unici due senatori a vita che votano, Monti e Cattaneo, e tre delle Autonomie).

Nell’intervento in pratica riconosce di non essere affatto «pronta», come scriveva nei manifesti elettorali. «Disegno l’Italia che vorrei, una visione, un manifesto programmatico senza il quale anche le risposte concrete non sarebbero efficaci». La legge di bilancio è dietro l’angolo e lei non ha una sola proposta comprensibile e valutabile dalle camere che le danno la fiducia. Anche le misure che si intravedono sono mosse ideologiche, non economiche. Bandierine da sventolare contro le opposizioni (meglio, contro il Pd e M5S, perché a Renzi e Calenda ricambia la cortesia) assai più che provvedimenti strategici. Meloni conferma così che una qualche tassa piatta la farà, «o andava bene solo quando la facevate voi del Pd per i milionari?». Che alzerà il tetto del contante, perché «non c’è correlazione tra l’intensità di diffusione del contante e l’economia sommersa. Non siete d’accordo? Lo diceva il vostro ministro Padoan». Vero, ma poi se ne pentì.

Stesso piglio da comizio di opposizione anche sul resto. Sul Covid, che pure potrebbe essere un gran problema da governare nel caso non improbabile di una risalita dei contagi, «non faremo della scienza una religione, come avete fatto voi». Sull’invio delle armi in Ucraina e sulla via d’uscita dalla guerra: «La pace non si fa sventolando le bandiere arcobaleno». Rispondendo all’ex magistrato antimafia Scarpinato, ora senatore M5S, dice che «l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico del teorema di parte della magistratura, a cominciare dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d’Amelio» (cita però proprio una vicenda nella quale Scarpinato fu impegnato per correggere il depistaggio). E per difendere il ministro della difesa Crosetto, già lobbista delle armi, dalla facile accusa di conflitto di interessi, non trova altro argomento che il puerile «allora perché Conte non ha venduto le aziende italiane che fabbricano armi?». A Conte, forse, ha rivolto un insulto l’altro giorno alla camera: le telecamere registrano un labiale che può essere «quando mai» ma anche «che merda» (e, vale la pena notare, nessuno ritiene impossibile che abbia potuto pronunciare l’insulto).

Il vertice sia dell’aggressività che della falsità propagandistica, però, Meloni lo raggiunge quando non si trattiene dal polemizzare con la neo senatrice di Sinistra/Verdi Ilaria Cucchi, che pure aveva avuto toni pacati. Se martedì a Montecitorio la presidente del Consiglio aveva spiegato di provare simpatia per i giovani che protestano, ieri ha detto che la polizia ha fatto bene a manganellare gli studenti della Sapienza. Perché «quelli non erano manifestanti pacifici, facevano un picchetto per impedire che ragazzi che non la pensavano come loro potessero dire la loro. In tutta la mia vita non ho mai organizzato una manifestazione per impedire a qualcun altro di parlare». La solennità della dichiarazione dovrebbe far dimenticare le tantissime volte in cui manifestanti della parte politica di Meloni hanno tentato di impedire o impedito conferenze di storici non graditi o boicottato libri di testo. E non solo manifestanti, anche sindaci di FdI, come quello di Vicenza che ha bloccato un convegno sulle foibe qualche mese fa. Ma Meloni-Voltaire vola alto: «Il fatto che tu abbia qualcosa da dire non impedisce a chi la pensa in maniera diversa dalla tua di poterlo dire». Sempre che non sia Peppa Pig.