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Meloni e il fantasma del governo tecnico: «Lo vuole la sinistra»

Giancarlo Giorgetti e Giorgia Meloni foto LaPresseGiancarlo Giorgetti e Giorgia Meloni – foto LaPresse

Politica La presidente del Consiglio reagisce alle difficoltà al solito modo: «Lo spread è salito perché i mercati avevano creduto ai giornali»

Pubblicato circa un anno faEdizione del 30 settembre 2023

Di chi è la colpa se fioccano dubbi sulla Nadef, se i mercati non credono alle previsioni del governo Meloni-Giorgetti, se il Financial Times titola sull’Italia «anello debole d’Europa», se il presidente di Confindustria Bonomi, in panico per lo spread, propone la formula eterna dei suoi pari, un bel taglio alla spesa pubblica? Se l’interrogata è Giorgia Meloni la domanda è retorica. La colpa è «dei soliti noti», al secolo le forze di sinistra che vorrebbero sostituire «un governo democraticamente eletto che sta facendo il suo lavoro e una solida maggioranza» con un «governo tecnico non eletto da nessuno». E poi, punzecchiati più e più volte, i giornali che «hanno già la lista dei ministri tecnici». Giorgia ironizza: «Poi questo governo tecnico chi lo dovrebbe sostenere, quelli del Superbonus?».

SONO SOLO POLITICI di sinistra e direttori di giornali a fomentare preoccupazioni tendenziose perché, anche se la situazione «è complessa», tutto va più o meno nel migliore dei modi: «La crescita è superiore a quella di Francia e Germania e lo sarà anche l’anno prossimo». E lo spread? «Si è alzato per poche ore e oggi è già sceso: si vede che i mercati avevano letto solo i titoli dei giornali. Poi hanno letto anche la vera Nadef. E comunque lo spread è a 192 punti, a ottobre era a 250 ed è stato più alto per tutto l’anno precedente alla nascita di questo governo. Ma allora i titoli non li ho visti».

Naturalmente in parte la premier ha ragione: sul fatto che buona parte degli opinionisti considerasse Draghi sacro e che invece con il governo della destra faccia politica a suon di critiche non c’è dubbio. Ma che Meloni provi a cavarsela con battute, «la sinistra continui a fare le sue liste dei governi tecnici e noi continuiamo a governare», è altrettanto chiaro. In tutto lo show il vero stato d’animo della premier e del governo spunta solo per un attimo, quando assicura che «la Nadef è seria e la legge di bilancio sarà estremamente seria». Sia lei che il ministro dell’Economia sanno bene che, a fronte di una Nadef che nella migliore delle ipotesi si può definire molto ottimista e nella peggiore una chimera, sia l’Europa che i mercati passeranno al contropelo la manovra. Da quel vaglio dipenderà il verdetto complessivo.

LA SITUAZIONE, al momento, non appare affatto risolta. Nel complesso, anche stringendo la cinghia, la legge di bilancio dovrebbe aggirarsi sui 30 miliardi, comunque difficilmente varrà meno di 25. Lo sforamento porterà in cassa 14 miliardi e più di questo non si poteva fare senza rendere certo quello scontro con Bruxelles che per ora è solo paventato. In cassa il governo ritiene di avere già altri 5,5 miliardi. Ma le voci di entrata rischiano di somigliare alla crescita prevista per il 2024, cioè di rappresentare più un auspicio e una speranza che una certezza. Dalla spending review devono arrivare 2 miliardi. Però al momento i ministeri, o meglio i pochi che lo hanno fatto, hanno presentato a Giorgetti un elenco di tagli che arriva sì e no a 300 milioni. Due miliardi e mezzo sono indicati come provenienti dalla tassa sugli extraprofitti, che però ancora non c’è e come si fa a dire quanto frutterà? La possibilità per le banche di scegliere tra il versamento del prelievo e il rifinanziamento per un cifra quattro volte superiore alla tassa rende autorizza il dubbio che molti scelgano di tenersi i soldi in cassa invece che devolverli allo Stato. Le privatizzazioni dovrebbero valere 20 miliardi divisi in tre anni, però il ricavato dovrebbe andare tutto a risanare il debito. La partita della legge di bilancio è ancora tutta aperta e resta per il governo molto difficile.

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