Ci mancava la derubricazione dell’agone politico a diverbio da strada, di quelli che proliferano dopo gli incidenti automobilistici minori. Però ci siamo quasi e l’incresciosa pochade del Giurì d’onore, riunito su richiesta di Giuseppe Conte «leso nella sua onorabilità» da Giorgia Meloni a proposito di Mes, rischia di aprire la strada a una valanga di risse, con tanto di insulti e accuse ignominiose. Ci manca solo il proverbiale «Tenetemi che l’ammazzo».

IL FATTACCIO È FINITO In farsa dopo due mesi di audizioni da parte del Giurì. Il parere però non è arrivato e non arriverà. All’ultimo momento, quando mancava la disamina solo delle ultime due pagine su 17, i due componenti d’opposizione, Zaratti (Avs) e Vaccari (Pd) martedì sera avevano rassegnato le dimissioni accusando di fatto il presidente Mulè (Fi) di disonestà e partigianeria: «Sono prevalse motivazioni, ancorché significative, di ordine politico». Con la velocità del lampo alle dimissioni dei due aveva fatto seguito la lettera di Conte al presidente della Camera Fontana nella quale l’ex premier chiedeva lo scioglimento del Giurì, ritirando così la richiesta di istituirlo, dal momento che, senza più i rappresentanti dell’opposizione, erano «venute meno le condizioni di terzietà».

FONTANA NON HA POTUTO fare altro che prendere atto e sciogliere il Giurì prima che il parere fosse emesso, ringraziando Mulè «per l’accuratezza e precisione del lavoro svolto». Solo che il cerino del disonore così restava bruciante proprio fra le dita di Mulè. Furibondo, ha convocato una conferenza stampa incandescente sparando a zero sui due consiglieri «che hanno abbandonato il campo» e su Conte che «si è portato via la palla». Le accuse di parzialità, oltre che infondate, sono «da vomito». La ricostruzione del fattaccio Mulè la definisce totalmente falsa: sulla prima parte dell’atteso «parere» l’accordo era unanime. Le ultime 2 pagine il Giurì aveva appena cominciato a leggerle e non c’è mai stato voto di sorta. Affermare che le conclusioni fossero «pronte a dar ragione a Meloni» è falso. Perciò «in tribunale sarebbe oltraggio alla Corte. Così è oltraggio al Parlamento». L’oltraggioso Conte però si ritiene oltraggiato e replica: «La verità è che si voleva far vincere Meloni e a perdere sarebbero state le istituzioni».

Chi ha ragione è impossibile dirlo. Di certo le pressioni di Conte sul Pd sono state negli ultimi giorni continue e martellanti. Di certo l’irritazione del Pd è palese. Quando un 5S propone di riprovarci con un secondo Giurì Andrea Orlando sbotta: «Non mi pare il caso». Insomma il dubbio che Conte, sospettando un imminente parere sfavorevole alla sua causa, abbia deciso di far saltare il banco è inevitabile. Ma del resto anche un parere effettivamente a lui sfavorevole avrebbe significato ben poco. A torto o a ragione tutti avrebbero sospettato comunque i componenti del Giurì di maggioranza, oltre a Mulè il leghista Cecchetti e Colucci (Noi Moderati), di parzialità. In faccende come queste l’unico modo per uscirne senza figuracce collettive e bipartisan è non infilarcisi. Il “parere” non avrebbe avuto effetti concreti e non avrebbe certo dissipato alcun dubbio sulla vicenda dell’approvazione della riforma del Mes, che secondo Meloni Conte avrebbe deciso quando il suo governo era già dimissionario mentre per Conte trattasi di solo di gravissima calunnia.

Ma le pessime trovate sono contagiose. Così mentre naufraga nel ridicolo il Giurì della Camera ecco che ne spunta un altro al Senato. Lo ha chiesto al presidente La Russa il presidente della commissione Affari costituzionali Balboni (FdI). In commissione, mentre una senatrice della maggioranza interveniva sul premierato, il collega Magni (Avs) la contestava rumorosamente. Balboni minacciava l’intervento «della forza pubblica». A riferire la cosa è stato in aula il capogruppo del Pd Boccia, sdegnatissimo: «Nessuno può dire qui comando io». Balboni si è risentito, anzi si è proprio imbufalito. Sia un Giurì d’onore a chiarire la vicenda. Ancora? No, il Giurì no!