Mellaart e l’oscura vicenda del tesoro reale di Dorak
Scoperte archeologiche Enrico Giannichedda ricostruisce storia e intrighi di una presunta «scoperta» archeologica effettuata in Turchia,1922, che divenne caso mediatico negli anni sessanta: Il tesoro di Dorak, Edipuglia
Scoperte archeologiche Enrico Giannichedda ricostruisce storia e intrighi di una presunta «scoperta» archeologica effettuata in Turchia,1922, che divenne caso mediatico negli anni sessanta: Il tesoro di Dorak, Edipuglia
Spesso, chi intraprende il mestiere di archeologo racconta di aver rincorso un sogno seguito a una «folgorazione». Celebre è quella di Heinrich Schliemann, che all’età di sette anni ricevette in dono per Natale una Storia illustrata del mondo, nella quale compariva una raffigurazione di Enea in fuga da Troia con il vecchio padre sulle spalle e il figlioletto tenuto per la mano. Nell’osservare lo schizzo delle Porte Scee e delle mura in fiamme, Schliemann «decise» che avrebbe un giorno riportato alla luce la città che tutti credevano perduta… A colpire James Mellaart, al punto di indurlo a cimentarsi con l’archeologia, fu invece un papiro egiziano che narrava di un viaggio (probabilmente il cosiddetto Racconto del naufrago, di cui una traduzione inglese degli anni quaranta poteva essere nota all’archeologo nato nel 1925 a Londra da famiglia olandese).
Quest’ultima circostanza viene ricordata da Enrico Giannichedda ne Il tesoro di Dorak Archeo inchiesta (Edipuglia «Le vie maestre», pp. 238, euro 16,00). Come suggeriscono titolo e sottotitolo, il saggio si sviluppa intorno all’oscuro caso di una scoperta eccezionale effettuata (o forse no!) nel 1922 a Dorak, nella Turchia occidentale, durante l’occupazione greca. Protagonista di questa rocambolesca vicenda, trasformatasi al principio degli anni sessanta in uno scandalo mediatico, fu appunto Mellaart, il quale non raggiunse mai la fama di Schliemann ma rappresentò comunque una figura di spicco nel quadro dell’archeologia del Vicino Oriente e in particolare della preistoria anatolica. Dal canto suo Giannichedda, studioso di Metodologia della ricerca archeologica, Archeologia teorica e Archeologia della produzione, si distingue non solo per gli innovativi approcci scientifici ma anche per l’originalità dell’attività divulgativa. Se aveva già manifestato una passione per gli «intrighi» con Quasi giallo. Romanzo di archeologia – pubblicato nel 2018 sempre per Edipuglia e selezionato fra i candidati al premio Campiello –, in quest’ultima opera egli abbandona la finzione letteraria per dedicarsi a una indagine basata su fatti e documenti, sebbene né degli uni né degli altri possa sempre essere accertata la veridicità. Forse per questo l’autore non resiste alla tentazione di aprire il volume con una ricostruzione immaginaria della storia che si appresta a riferire con rigore investigativo.
I lettori vengono inizialmente immersi in un clima da Orient Express, in cui una giovane e appariscente donna con un braccialetto d’oro massiccio al polso, antico come gli ori di Troia, irrompe – lungo il tragitto verso Smirne – nel vagone dove un ambizioso archeologo è intento a fantasticare delle scoperte che presto gli regaleranno l’agognata gloria. Come accadde a Schliemann, Woolley, Carter e Wheleer…Già in queste prime pagine «romanzate» è fatta menzione del tesoro reale di Dorak «che gareggia in bellezza con quelli di Ur, a Est e di Troia, a Ovest» e che Mellaart sostenne di aver visto a casa di Anna Papastrati, la seducente passeggera incontrata sul treno. Il capitolo I riporta la narrazione sul piano della realtà. Il tesoro di Dorak è scomparso. Per alcuni si tratta di un falso tesoro, che potrebbe essere segretamente custodito da un collezionista truffato. Per altri non è mai esistito.
Mellaart ne diede notizia il 28 novembre 1959 su «The Illustrated London News», un periodico ad ampia diffusione che dal 1842 (e fino al 2003) promuoveva con clamore le scoperte archeologiche avvenute nel Regno Unito ma soprattutto gli straordinari rinvenimenti che le missioni archeologiche britanniche realizzavano in ogni angolo del mondo. In una sola pagina di testo accompagnata da tre tavole a colori, l’archeologo che nel 1951 arrivò ad Ankara (dove aveva sede il prestigioso British Institute of Archaeology) per occuparsi della preistoria della Turchia meridionale – descrisse un sorprendente insieme di oggetti provenienti dallo scavo di una piccola necropoli situata in cima a una collina, sulla sponda meridionale del lago Apolyont (ora Uluabat). Mentre il titolo del contributo attribuiva la scoperta a scavi clandestini, Mellaart parlò di ricerche accurate. Il tesoro è da lui messo in relazione con due tombe a cista (interpretate come reali) datate al III millennio a.C., affiancate a due sepolture a pithos destinate a due individui di rango inferiore. Scettri, spade, daghe, statuine di dee e sacerdotesse dal corpo di metallo e un trono ligneo con il cartiglio del faraone Sahure (2487-2473 a.C.) riconducono, secondo Mellaart, alla cultura Yortan e denotano traffici con l’Egitto e con i popoli del mare. La rivista precisò che i disegni non erano realistici ma, in attesa della diffusione (mai avvenuta) delle fotografie, servivano a dare un’idea della varietà dei materiali. Essi vennero divulgati anche in ulteriori pubblicazioni, a firma dello stesso Mellaart e di Seton Lloyd (all’epoca degli avvenimenti direttore del British Institute), diventando oggetto di controversia, in quanto nessuno di coloro che li riprodusse si prese la briga di verificare se furono effettivamente eseguiti per sfregamento, come nel caso della daga decorata con diciassette imbarcazioni, che per Mellaart rappresenterebbero le navi oceaniche con a bordo i mitici Argonauti, diretti dal Mar di Marmara a Dorak e da lì nella Colchide. Oppure se furono copiati da altre pubblicazioni o inventati di sana pianta.
Fino al 1960 Mellaart proseguì le indagini nel sito di Hacilar e tra il 1962 e il 1963 diresse regolari scavi a Çatalhöyük, un villaggio con le case addossate e le entrate dai tetti che si rivelò di estrema importanza per la storia della regione. Ma nel frattempo il quotidiano turco Milliyet, fra i più influenti del paese, lo accusò di aver occultato il tesoro di Dorak, il cui valore era stimato in 48 milioni di sterline. L’ipotesi strillata in prima pagina era che a scavare il sito, tra il 1956 e il 1957, fosse stato proprio Mellaart. Nel ’63 all’archeologo britannico venne anche contestata dal procuratore di Çumra l’esportazione illegale di reperti e l’anno successivo scattò l’interdizione di scavi in Turchia.
Giannichedda ripercorre ogni tappa con dovizia di particolari, fornendo allo stesso tempo una panoramica del contesto in cui si svolgevano allora le missioni archeologiche nel Vicino Oriente. Oltre alla biografia di Mellaart scritta dal figlio Alan alla morte dei genitori, una fonte rilevante è l’inchiesta condotta da Patricia Connor e Kenneth Pearson, sfociata nel 1967 nel libro The Dorak Affair. L’autore passa nuovamente in rassegna le interviste ai vari testimoni, da una parte traendo informazioni preziose per rianalizzare il caso, dall’altra sottolineando la debolezza dell’indagine condotta dai due giornalisti inglesi forse più per motivi sensazionalistici che per ricerca della verità. A una trama degna di un film (che in effetti stava per essere realizzato), in cui personaggi femminili ora fascinosi ora inquietanti – come la fantomatica donna del treno, Anna Papastrati e la moglie di Mellaart, Arlette Cenani, archeologa appartenente a una ricca famiglia del Bosforo – trasformano a tratti l’esposizione in un intrigo amoroso, si alternano riflessioni sulla falsificazione dei reperti e la vendita di questi, tramite spregiudicati mercanti, a istituzioni museali di fama mondiale quali il Metropolitan Museum of Art di New York e il Boston Museum of Fine Arts.
L’autore de Il tesoro di Dorak non risolve la vicenda ma offre al lettore diverse soluzioni, nessuna delle quali, però, sembra salvare Mellaart. Il merito di questo libro, infatti, non è solo quello di aver riportato a galla un episodio dimenticato eppure fondamentale della storia dell’archeologia, ma anche di ragionare con profondo senso etico sulla pratica di una disciplina intesa ancor oggi da molti come ricerca ossessiva di oggetti di bella fattura. Rinvenimenti eclatanti, suscettibili di favorire – più che la scienza – le carriere degli scopritori. In un groviglio di politica e affari, e a detrimento di una comunità, già assuefatta a consumi di ogni tipo, alla quale vengono venduti «tesori» in cambio di consensi.
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