Mel Brooks, il sogno di Broadway
Il libro In «Tutto su di me!» il grande cineasta statunitense racconta la sua vita, tra sketch, capolavori, e amori
Il libro In «Tutto su di me!» il grande cineasta statunitense racconta la sua vita, tra sketch, capolavori, e amori
Nessuno dei comici americani degli anni Settanta può vantare la stessa chutzpah, l’ebraica faccia tosta della tradizione jiddish, di Mel Brooks, l’attore-regista che ha fatto dell’esagerazione – clamorosa, insolente, sgangherata – la stella polare della sua attività. Come conferma Tutto su di me!, l’autobiografia edita da «La nave di Teseo» nella traduzione di Alice Arecco (pp.620, euro 22,00), dove non esita a celebrare la sua «straordinaria vita nel mondo dello spettacolo» con una pioggia di aggettivi ridondanti e compiaciuti che non aiutano affatto a distinguere i grandi successi dai penosi fallimenti.
L’enfasi sopra le righe accompagna anche la rievocazione delle vicende biografiche di Melvin Kaminsky – Mel Brooks viene da Katie Brookman, il nome da ragazza della madre – che nasce il 28 giugno 1926 in una famiglia ebrea d’origine polacca nel quartiere di Williamsburg a Brooklyn, con il ponte in direzione di Manhattan. L’appuntamento imperdibile del sabato mattina è con la sala sotto casa, dove per dieci centesimi si possono vedere due film, il serial, la comica, il cartone animato e i trailer. È l’inizio di una storia d’amore destinata a durare tutta la vita: «I film sono magici, ti fanno uscire dal mondo reale per entrare, all’insegna del lieto fine, in una dimensione in cui i sogni diventano realtà». Se da bambino i mostri dell’horror con i bulloni sul collo se li sogna anche la notte, più tardi stravede per i musical come Voglio danzare con te, Follie d’inverno, Cappello a cilindro, con Fred Astaire e Ginger Rogers.
Quando lo zio Joe lo porta a teatro a vedere Anything Goes di Cole Porter, s’innamora dei musical di Broadway, catturato per sempre dal fascino dello spettacolo. Ma sin dai banchi di scuola fondamentale è la scoperta della comicità : «Non ero molto alto, quasi tutti gli altri bambini in classe erano più grandi di me, quindi avevo bisogno di un’arma per difendermi. Quell’arma si rivelò essere la comicità. Riuscii a farmi accettare, a far sì che mi fosse permesso andarmene in giro con ragazzini più grandi di me perché li facevo ridere».
Il romanzo di formazione del futuro comico si avvia quando nel ’40, appena quattordicenne, viene assunto in uno degli alberghi della Borscht Belt, la catena dei monti Catskill, a un centinaio di chilometri a nord della Grande Mela, dove si esibiscono tutti i grandi nomi dello show-business. Non si lascia sfuggire l’occasione di sostituire uno degli attori della commedia della sera, conquistando il pubblico con la sua disarmante spontaneità. Alla fine del ’47 l’incontro che gli cambia la vita è quello con Sid Caesar, che debutta come comico al Capocabana di New York: «La sua comicità era assolutamente diversa da tutte le altre. Quella sera, nel suo monologo fece la satira di un film di guerra dove impersonava sia il pilota americano di bella presenza che quello tedesco dall’aria malvagia. I suoni e le cadenze che imitava erano impressionanti: il motore dell’aereo, la mitragliatrice, la voce dell’eroe e quella, gutturale e folle, del cattivo». Tra i due la sintonia è immediata.
Quando nel ’50 diventa il protagonista di Your Show of Shows, il celebre spettacolo televisivo del sabato sera della NBC, Sid lo vuole nello staff di scrittura assieme a Mel Tolkin e Lucille Kallen, a cui si aggiungerà Carl Reiner. Le canzoni, le danze, i balletti, gli sketch comici, le pantomime, un ospite nuovo ogni settimana, sono questi gli ingredienti dell’enorme successo dello show. I monologhi di Sid, i numeri del Professor Tedesco, le parodie dei film diventano di puntata in puntata i cavalli di battaglia di Mel autore televisivo. La gavetta del gagman continua con gli altri spettacoli dell’amico, da Caesar’s Hour (1954), a cui collabora anche Woody Allen, a Sid Caesar Invites You (1958).
Negli anni Sessanta la sua popolarità si affida a L’uomo di 2000 anni, il disco realizzato con Carl Reiner, singolare conferma della comicità demenziale perfezionata nella lunga gavetta del battutista, che rimbalza a più riprese in tv fino alle frequenti apparizioni al Tonight Show di Johnny Carson. È in questo periodo che incontra per la prima volta Anne Bancroft, la grandissima attrice di teatro, da Anna dei miracoli a Madre Coraggio, oltre che di cinema e di televisione, destinata a entrare nell’immaginario per l’intramontabile personaggio della Signora Robinson di Il laureato (1967) di Mike Nichols. Nel ’64, l’anno in cui Anne e Mel si sposano, la serie Get Smart – micidiale parodia degli agenti segreti che al cinema dominano il box-office – s’impone perché punta sull’irriducibile idiozia dell’imbranato protagonista.
Sembra paradossale, ma il grande comico al cinema ci arriva come regista solo nel ’67 a quarantun anni, senza alcuna particolare esperienza tecnica. Satira sfrontata del mondo di Broadway, The Producers (1968) – da noi diventa Per favore non toccate le vecchiette – è l‘epopea dei gaglioffi Max Bialystock e Leo Bloom che, finanziati da una schiera di ricche vedove, mettono in scena un orrendo musical intitolato Springtime for Hitler contando sul flop per arricchirsi con il resto del budget. Ma il colpo non gli riesce perché lo spettacolo si rivela un inaspettato trionfo. Quello che non ha successo è invece il film, nonostante alcune sequenze irresistibili e le interpretazioni da applauso di Zero Mostel, esplosivo uomo-orchestra, e di Gene Wilder al suo esordio.
La sua affermazione coincide con la parodia dei generi del classicismo hollywoodiano. La rivisitazione del cinema del passato, sempre in bilico tra ironia iconoclasta e omaggio ammiccante, funziona soprattutto quando prende il via da strutture già esistenti e da stereotipi collaudati. Mezzogiorno e mezzo di fuoco (1974) è un ricalco del western in cui i percorsi canonici del cinema americano per eccellenza, virati in chiave di sfrenata comicità, finiscono con lo smontare non solo il genere ma l’intera macchina-cinema, all’insegna del film nel film.
Il suo capolavoro è Frankestein Junior (1974), ironica ma affettuosa rievocazione dello smagliante bianco-e-nero dei classici film di James Whale, in cui il gioco pirotecnico delle gag fa tutt’uno con il ritmo incalzante della vicenda. Sono diventati proverbiali il nitrire dei cavalli al nome di Frau Blucher e la cena notturna del mostro col monaco cieco. Se Igor con la gobba che si sposta da destra a sinistra è indimenticabile, la scena di culto è quello del tip-tap ballato dal mostro e dallo scienziato.
Il punto d’arrivo della vocazione autoriflessiva dell’autore è L’ultima follia di Mel Brooks (1976), il film-scommessa che puntando sul silent movie gli consente di rifare il verso al cinema comico di ieri in una scatenata girandola di citazioni e di trovate.
Non ci si può nascondere che la sua stagione più fervida e creativa è abbastanza breve. Se Alta tensione (1977) è un vertiginoso gioco di incastri in cui l’omaggio al maestro del brivido prevale sullo sberleffo, i film successivi – da La pazza storia del mondo (1981) a Balle spaziali (1987), da Che vita da cani! (1991) a Robin Hood-Un uomo in calzamaglia (1993) – nonostante qualche sequenza spassosa hanno perso il mordente di un tempo. Ma il vecchio leone fa centro ancora una volta quando il 19 aprile 2001 il musical The Producers – con Nathan Lane e Matthew Broderick nei ruoli che nel film erano di Zero Mostel e Gene Wilder – viene presentato al St. James Theatre, prima di intraprendere una fortunata tournée in tutto il mondo, realizzando finalmente il sogno del ragazzo di Brooklyn di diventare un autore di Broadway.
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