La differenza tra sottomissione e disperazione è larga tanto quanto la complessità di significati che si attaglia ai due termini. Urticanti, difficili, secondo le applicazioni addirittura insostenibili. Entrambi raccontano però della condizione umana, e delle relazioni, in particolare quelle tra i sessi. Ce lo spiega Megan Nolan, scrittrice trentenne irlandese di cui le edizioni NN propongono in traduzione il suo esordio letterario, Atti di sottomissione (che nel titolo originale è Acts of desperation, nella traduzione di Tiziano Lo Porto, pp. 288, euro 19).

LA PROTAGONISTA è una ventenne di cui non conosciamo il nome e che racconta, in prima persona e a partire da sé, cosa significhi essere dipendenti dallo sguardo altrui. Di un uomo, in particolare, che rende visibile ciò a cui non si attribuisce nessuna qualità: il proprio corpo, per cominciare. Questa mancata autocoscienza, descritta fin dalle prime pagine come uno scorrere lungo i bordi di una deriva urbana e precaria come tante, subisce un cortocircuito nell’incontro con un fascinoso e distaccato ragazzo, dall’algidità antisociale che la giovinezza tende a giustificare con esigenze sofisticate di carattere teorico e culturale.

Lui, diversamente da lei, ha un nome: Ciaran. Sdrucito pseudo-intellettuale metropolitano degli anni duemila a Dublino, con molto meno appeal dei suoi predecessori letterari, non ha strategie specifiche di seduzione. Il tema del romanzo è infatti l’unilateralità di una esperienza che è tutta sessuata dalla parte di lei. Cerca un bandolo, assume alcool e droghe, vive in uno spazio che somiglia al suo disordine, una esistenza sgangherata compresa intimamente solo da chi l’ha attraversata.

Atti di sottomissione è un esordio parlante che procede almeno in due linee genealogiche distinte: la prima segue l’assenza del nome proprio delle protagoniste di altri esordi tradotti di recente: per esempio Cagna di Louise Chennevière (Solferino), Buio di Anna Kantoch (Carbonio) e L’isola di Altrove di Karen Kohler (Guanda).

SEMBRA, questa della voce che proviene dai meandri di se stesse, un’acribia del desiderio che si rende incarnato e che, per farlo, non sente la necessità di corrispondere a un nome. E neppure intende sostituirlo con una funzione, come invece accade alla massaia di Paola Masino o alle tante figlie, prodighe o meno, di Alice Ceresa (per citarne solo due nel cielo fitto delle scrittrici a noi più vicine, geograficamente e simbolicamente). Qui vi è invece una morte già officiata in precedenza, il nome in cambio di una restituzione più grande: la nuova nascita di sé, un anonimato contraddittorio eppure in autentica lotta per la sollevazione.
La seconda linea di parentela in cui si può annoverare l’operazione di Megan Nolan risponde a un’altra esordiente irlandese, Emilie Pine, che con il suo Appunti per me stessa (Rizzoli) narra «per spezzare il codice del silenzio». Contrariamente a quanto accade con Sally Rooney, conterranea di Nolan ma che nel suo Persone normali (Einaudi) se indaga la dipendenza non si intrattiene nell’opacità disturbante. Volgendo lo sguardo al passato, sia pure non troppo remoto, Lena Andersson ci aveva avvertite di una storia abbastanza simile a quella raccontata da Nolan nel suo Sottomissione volontaria (e/o) – anche qui non ci si faccia ingannare dal titolo, più che di sottomissione si discetta di ricerca di una identità precisa -, dove però non era presente tutta la disarmata e stupefacente distruttività di cui è capace l’io narrante scelto dalla scrittrice irlandese. Ciò perché, si potrebbe obiettare, le età delle protagoniste sono distanti e di conseguenza l’elaborazione.

IL PUNTO DOLENTE è tuttavia quell’impronunciabile sacrificio di se stesse, quella non-esistenza data in mano altrui, disperata, letteralmente senza stelle. Di cui, secondo Megan Nolan, non è colpevole la prevaricazione maschile – sia pure del narcisismo gelido e autocentrato di soggetti simili a Ciaran se ne possa trovare il segno a ogni latitudine nei secoli dei secoli -, bensì l’effetto vistoso che lo smarrimento tende a procurare. E a incistare negli anni. L’unica soluzione sembra allora quella di destarsi e andare via, lontanissimo. Non da sé, ma da un teatro violento che ammette solo ruoli di comparse intercambiabili. E, strappato il copione, si sceglie la libertà di tenere nelle proprie mani il resto della storia.