Il fotografo Pino Ninfa e il pianista Danilo Rea collaborano almeno dal 2015 in performance in cui gli scatti dell’uno si riflettono nei suoni inventati dell’altro, e viceversa. Questa volta a Villa Widmann (26 giugno, ore 21) – nei pressi di Mira, Venezia – propongono un «itinerario circolare diviso in capitoli (…) Fotografia e musica dal vivo si fonderanno in un’esibizione che farà dell’improvvisazione la sua cifra distintiva». Ninfa (reporter a tutto campo, dalla formazione jazz, spesso impegnato in progetti solidaristici) persegue sinergie con musicisti per generare un connubio emotivo tra media fotografico e suoni. Rea è uno dei più importanti ed autorevoli jazzisti italiani ed europei, con una capacità creativa ed improvvisativa fuori dal comune. Abbiamo intervistato il fotografo milanese pochi giorni prima del loro duo al «Summer Mira Sound».

Partirei dalla performance «Mediterraneum» che terrai tra pochi giorni insieme al pianista Danilo Rea. Quali saranno i suoi temi?
Con Danilo ci siamo già sentiti per i temi e ci vediamo per le prove. Ci saranno sequenze di immagini e sul finale con il pianista, di solito, guardiamo gli ultimi scatti per capire se siamo in dirittura d’arrivo. Io mando le foto manualmente: questa manualità ha una temporalità che non è fiscale, però è un tempo. A seconda di come sento la musica, faccio durare una foto un tempo piuttosto che un altro, in modo differente. Possiamo dire che è un tempo di narrazione, è un viaggio in cui musica e fotografia si incontrano per dare modo allo spettatore di viaggiare insieme a queste due arti.

Di recente hai affermato che, ad un certo punto del tuo ricercare, ti sei accorto che le immagini in qualche modo avevano una loro musicalità. Ci spieghi meglio questo concetto?
La cosa più importante è che lavoro anche sul movimento, fondamentale per il mio fotografare. Quando ho iniziato a ritrarre la musica, in particolare il jazz a cui devo molto, non avevo voglia di ripetere le bellissime foto o le idee del passato: cercavo qualcosa che mi permettesse di fare un’indagine personale. Ho così elaborato un’idea secondo cui il palcoscenico dove i musicisti si esibiscono è, in realtà, la loro casa. Quindi ho iniziato a lavorare ritraendo il luogo, oltre al musicista. Mi sono ritrovato nel tempo ad avere l’idea fissa che tutto diventava importante, musicista incluso ma senza trascurare elementi della scena come microfoni, ombre, leggii, mani… Queste «cose» forniscono un complemento alla fotografia che altrimenti è solo concentrata sul musicista.

Pino Ninfa dal progetto «Mediterraneum»

Mi sono così ritrovato, partendo da quest’idea, che città, territori, paesaggi spesso erano il palcoscenico della vita, una sorta di teatro a cielo aperto che per me è sempre stato strumento di indagine. Questa «visione teatrale», il fare progetti e reportage spesso in contesti musicali, ha fatto in modo che le immagini racchiudessero un po’ di questa musicalità. È una musica che mi porto dentro con la vita, i luoghi, le persone. È un po’ una musica del cuore.

Per questa performance avete scelto il tema critico del Mediterraneo dai molti risvolti, mare un tempo accogliente ed ora tomba per migliaia di profughi…
Ho suddiviso gli argomenti in capitoli autonomi, con una decina di temi presenti nella performance (la Valle di Noto, i sassi di Matera, Palermo, feste religiose, bande musicali, siti archeologici, aree abbandonate, foto storiche in albumina… n.d.r.). Si parte da Venezia, siamo vicini alla città lagunare, ma non so se sarà l’inizio o la fine: ciò fa parte del montaggio da fare con Danilo ma ad ogni tema corrisponde un brano. Nel capitolo in cui si riflette sul Mediterraneo come tomba per tanti migranti metterò le foto del cimitero delle barche che li hanno trasportati, scattate a Lampedusa.

Cercheremo di raccontare il Mediterraneo anche come un contenitore di memoria, non solo di questo tempo che passa così velocemente. L’area mediterranea è stata una culla della civiltà: vorrei narrarla in questi tempi moderni dove, secondo me, esiste ancora questa civiltà e vorrei che la si ritrovasse grazie al viaggiare in compagnia di fotografia e musica. Sostanzialmente il nostro è un modo per ritrovare gesti antichi in tempi contemporanei, per scoprire che il tempo è un alleato meraviglioso: permette alle cose di durare a lungo o di svanire in un secondo. Così che cogliere l’attimo e catturare i soggetti in posa da secoli diventano azioni che testimoniano passaggi sulle tracce di qualcosa che sta fuori e dentro di noi e nella nostra storia.

Mi sembra che la nostra sia un’epoca di «cecità visiva»: subissati di immagini, ne produciamo migliaia ma credo si sia persa la capacità di estrapolare ‘racconto’ e ‘memoria’.
Sono questioni su cui insisto nei miei laboratori. Cosa sappiamo veramente vedere? Può effettivamente corrispondere ad un suono un’emozione visiva? Ho fatto un workshop all’università tecnologica di Calcutta (India) ed è venuta fuori la necessità di capire cosa questi studenti – all’avanguardia mondiale per l’informatica – riuscissero a vedere. Siamo usciti con loro per tre giorni nella città confrontandoci con la «semplice» realtà ed è venuto fuori che il mondo ha bisogno di un «contatto» ancora un po’ vergine, di dare alle nostre emozioni, al nostro cuore sensibilità nell’incontrare anche quotidianamente quello che viviamo, con strumenti che non siano solo quelli che ci vengono imposti dal presente, dalla velocità della vita di oggi.

Penso anche all’Intelligenza Artificiale…

Con l’Intelligenza Artificiale tutti sono diventati fantastici fotografi ma io faccio questo discorso: quando abbiamo scattato una foto cosa siamo riusciti veramente a cogliere, cosa ci interessa cogliere? Purtroppo l’AI ci sostituirà e allora come possiamo conservare un elemento umano? Una domanda importane per il futuro; credo che un’altra arte che darà del filo da torcere all’AI sarà il teatro.

Stai preparando altre performance, mostre, libri (come «Breve sogno eritreo di Tekle Mandar», «Entrada proibida. Cronache amazzoniche»)? Cosa bolle nella pentola del tuo lavoro multidirezionale?
Quest’anno ho diversi progetti su temi differenti e sono contento perché ho riaperto il mio archivio a mille sollecitazioni. Ai primi di luglio farò una performance al «Gezmataz Festival» con Boris Savoldelli e Max Villesi che si intitola La bellezza delle donne, dedicata al mondo femminile. Mi rende orgogliosissimo che la performance Vivere un mestiere secondo Cesare Pavese”, realizzata nel 2023 con Umberto Petrin, vedrà anche Gianluigi Trovesi e ciò mi rende enormemente felice (in ottobre a JazzMI). A novembre, per la stagione di «Secondo Maggio» farò un progetto con Federica Michisanti e Luisa Manero e, nel frattempo, seguirò i percorsi sulla spiritualità con Marco Colonna, in cui abbiamo sviluppato un bel lavoro. Sulla spiritualità ho lavorato anche con Dimitri Grechi Espinoza, Luigi Martinale (con lui performance a Barge (CN) il 26/10), Giovanni Falzone e Arsene Duevi.

Nel novembre 2023 ho pubblicato per 89 books (piccolo editore di Palermo) Havana noir dove racconto in foto che la cartolinesca Cuba spensierata e leggiadra non esiste più. Oggi il cubano fa fatica a trovare cibo, medicinali, ad essere assistito e le persone scappano dall’isola. Ho realizzato un lavoro ambientato di notte, dove emergono ombre e atmosfere notturne, non sempre cupe.