Mediterraneo, persistenza dell’antico e uso politico dell’identità
A Marsiglia, Mucem Oltre 300 oggetti, da Piranesi ai gessi dalla statuaria greca, dai manufatti artigianali del Grand Tour al kitsch anni ’80: per il decennale del Museo, un allestimento permanente «in fieri»
Nel giugno del 2023, il Museo delle Civiltà dell’Europa e del Mediterraneo di Marsiglia – conosciuto più semplicemente con l’acronimo «Mucem» – ha festeggiato i dieci anni dalla nascita. Il traguardo raggiunto non è stato solo un’occasione per celebrare durante dodici mesi il successo di un’istituzione che è diventata un simbolo della città foceana e che supera per numero di visitatori (1milione e 300mila nell’ultimo anno, ndr) la totalità dei musei municipali ma anche per valorizzarne le collezioni, ereditate – com’e noto – dal Museo di arti e tradizioni popolari di Parigi (chiuso nel 2005) e in parte dal Museo dell’Uomo, situato nella piazza monumentale del Trocadéro.
In tale quadro è stata inaugurata lo scorso mese una nuova esposizione permanente dal titolo Méditerranées. Épisode 1: Inventions et représentations, che fino al 2030 verrà progressivamente incrementata di capolavori e oggetti rari scovati nei depositi.
La mostra – curata da Marie-Charlotte Calafat con Raphaël Bories, Camille Faucourt, Enguerrand Lascols e Hélia Paukner – presenta oltre trecento oggetti, di cui la metà appartengono al fondo del Mucem. Messi in risalto dalla scenografia di Pascal Rodriguez – che modernizza i caratteristici «collage» dei musei di Belle arti – essi hanno l’ambizione di narrare il processo di costruzione dell’identità mediterranea.
Dal XVII secolo artisti e studiosi hanno osservato, studiato e descritto il Mediterraneo, contribuendo a plasmarne le molteplici «facce». Le più svariate creazioni artistiche e i manufatti raccolti durante i viaggi sono confluiti nei musei d’Europa, che hanno a loro volta avuto un ruolo cruciale nella formazione degli immaginari.
All’ingresso della galleria, il visitatore può sbirciare gli spazi attraverso un ampio oblò. L’impressione immediata è quella di affacciarsi sulle sale di un museo dei primordi, dove dipinti raffiguranti rovine si affastellano e statue antiche dall’iconografia facilmente riconoscibile si frammentano e si ricompongono come nelle trame di un caleidoscopio.
Se tra i primi esemplari possono annoverarsi una tela del Settecento di Hubert Robert che ritrae Alessandro davanti alla tomba di Achille (in prestito dal Louvre) e una stampa dall’originale di Piranesi Antichità di Albano e di Castel Gandolfo, per quanto riguarda le sculture ci si renderà conto da subito che si tratta di calchi, del candore del marmo o ingrigiti dal tempo.
Deambulando tra la Cariatide «C» dell’Eretteo e l’Ilisso sdraiato dal frontone occidentale del Partenone, per poi trovarsi difronte alla riproduzione integrale di una copia dell’Apoxyómenos (realizzata nel 1893 nell’atelier di Michele Gherardi sul modello del I secolo a.C. conservato ai Musei Vaticani) e quella del busto del Laocoonte scoperto a Roma nel 1506, l’effetto – amplificato dagli elementi decorativi della Nike di Samotracia e dell’Auriga di Delfi, provenienti dalle «officine» dell’unione dei musei nazionali della Francia e appesi come fregi-pastiche alle pareti – è quello un po’ inanime dei musei dei gessi.
D’altra parte, esibire l’originale di una statua greca o romana sarebbe stato un lusso fuori luogo, visto che lo scopo della sezione introduttiva della rassegna è illustrare l’influenza del canone antico nell’arte europea di Età moderna.
Un modellino del tempio della Fortuna virile a Roma, sagomato con pezzi di sughero, legno e terracotta da Antonio Chichi nella seconda metà del Settecento, richiama il tema del Grand Tour e dei souvenir ricercati dai rampolli dell’aristocrazia, che percorrevano il Vecchio Continente con taccuino e pennello. A questa creazione artigianale che denota perizia ed emana una certa grazia, fa eco una bottiglia di ouzo ornata di cariatidi di plastica: è il kitsch anni ottanta, che – nel panorama dell’odierna paccottiglia made in China in vendita nei bazar della Plaka ad Atene – si configura come un piccolo capolavoro «pop».
Dalla fascinazione per le rovine – esaltate prima dalla pittura e poi, tra fine Ottocento e inizi Novecento, dall’avvento della fotografia (in mostra alcuni splendidi scatti dello svizzero Fred Boissonnas in Grecia e del francese Félix Bonfils a Palmira e a Baalbek) – il focus dell’esposizione si sposta sulla persistenza dell’antico nel presente e soprattutto sull’uso politico dell’archeologia nell’ambito del discorso identitario, nazionalista e razziale.
L’argomento che – come suggerito dalle immagini della distruzione di Palmira da parte dello Stato Islamico visibili lungo il percorso – è ancora attuale, avrebbe forse meritato maggiore attenzione nel contesto di un museo di società qual è il Mucem. Nondimeno i numerosi spunti di riflessione offerti possono essere approfonditi nel catalogo, coedito dal Mucem e dalle Edizioni Rmn-Grand Palais.
Uno spazio è dedicato al padiglione italiano della mostra coloniale del 1931 a Parigi, che già nell’architettura di Armando Brasini si ispirava alla basilica di Leptis Magna e proponeva come «oggetto feticcio» una copia della Venere di Cirene, riportata alla luce nel 1913 durante gli scavi della missione archeologica italiana. L
a rivendicazione delle potenze europee della comune eredità greco-romana come pretesto per la colonizzazione è rievocata in mostra anche da una serie di affiches che pubblicizzano le vestigia dei possedimenti francesi in Nord-Africa, da Timgad (Algeria) a Dougga (Tunisia). Anche il collage della serie «Paralleli» della fotografa greca Elly Sougioultzoglou-Seraidari (Nelly’s) presentato all’esposizione universale di New York del 1939, nasce dalla medesima matrice identitaria e nazionalista: la proiezione del «mondo di domani» corrisponde all’immagine della Grecia antica. Sotto lo sguardo serafico del grandioso Zeus in bronzo dell’Artemision risalente al V secolo a.C., gli incroci di genti e di culture dei secoli successivi vengono polverizzati.
Motivata innanzitutto da ragioni politiche, la conquista del Mediterraneo porta ugualmente al controllo delle risorse economiche. A ciò si accompagna, di conseguenza, un crescente interesse per i territori e le popolazioni che li abitano. Accanto agli archeologi, nel XIX e XX secolo fanno la loro comparsa gli etnologi, che percorrono la riva sud del Mediterraneo a caccia del folklore, con l’obiettivo di salvaguardare le testimonianze della diversità umana che vanno scoprendo.
Nella seconda parte dell’esposizione, quadri di ispirazione orientalista e fotografie dal gusto non meno esotico documentano i savoir-faire tradizionali. Jules Migonney s’installa nel cuore della Cabilia, per dipingere gli abitanti del villaggio isolato di Tamaghoucht al lavoro nella produzione di ceramiche (1910).
Il pittore Alfred de Curzon si reca invece in Italia e immortala le donne di Picinisco al telaio (1852-1857). L’immagine di spazi incontaminati, che serbano modi di vita e pratiche ancestrali – come simboleggiato dalla tela (1881-1934) di Antoine Gadan che traspone nel paesaggio rurale della Cabilia l’idealizzazione bucolica e omerica della figura del pastore – ha tuttavia il suo rovescio. Una vecchia vetrina del Museo del Trocadéro del 1990, riallestita con esattezza in occasione della rassegna al Mucem, dispone gli strumenti agricoli tipici dell’Algeria a ventaglio, in una messa in scena che ricorda con crudezza i trofei di guerra.
Il percorso espositivo è disseminato di opere dell’artista contemporaneo Théo Mercier, il cui approccio decostruisce e ricostruisce i meccanismi della Storia dell’Arte. Invitato dal Mucem a interrogarsi sulla nozione di Mediterraneo, Mercier restituisce alla comunità frammenti di oggetti invisibili e condannati all’oblio, che trasforma in composizioni eclettiche come il buffo «personaggio senza storia», realizzato dall’unione di cocci d’anfora e palle di cannone in pietra.
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