Meditazione su Visconti
«Luchino», un inedito ritrovato Nel 1972 Giovanni Testori scrisse un ribollente ritratto ‘araldico’ dell’amico regista: Giovanni Agosti lo pubblica ora da Feltrinelli, con ricchi apparati
«Luchino», un inedito ritrovato Nel 1972 Giovanni Testori scrisse un ribollente ritratto ‘araldico’ dell’amico regista: Giovanni Agosti lo pubblica ora da Feltrinelli, con ricchi apparati
E’ una notizia entusiasmante quella della pubblicazione, da parte dell’editore Feltrinelli e per cura di Giovanni Agosti, di un inedito profilo dedicato da Testori a Luchino Visconti (Luchino, pp. 413, euro 25,00): non solo perché il volume va ad arricchire la già estesa mappatura lombarda dello scrittore di Novate, ma anche (e soprattutto) perché di quella ricognizione – insieme geografica e intellettuale, condotta secondo diacronie fedeli nello studio di maestri antichi tanto quanto nel censimento di compagni moderni – rimpingua uno fra i campi meno dissodati, quello degli interessi cinematografici.
E sì che Testori aveva trovato più volte, nel corso di una carriera indefessa di successi e rovesci, il tempo di rivolgere attenzioni acute al grande schermo, al suo spettacolo gigantesco, associando a questa passione, rifratta a varie riprese nel corpus letterario, un impegno diretto e curioso: partecipò, ad esempio, all’inizio degli anni settanta, allo script di una riuscita sofisticata come il Bubù di Mauro Bolognini, costruito sul volto acerbo di Massimo Ranieri, e progettò, quasi nello stesso momento, un Amleto in pellicola di cui eran stati predisposti finanche copione e figurini (in tono con l’ambientazione inedita vagheggiata per il dramma, una «tetra…valle alpina»).
Pure nel contesto della bibliografia massiccia consacrata al nobile milanese, il medaglione cesellato dall’amico (e poi nemico velenoso, fino alla morte del regista), rischia di segnalare un’eccezione insolita: alla densa memorialistica nutrita dal mito viscontiano, dai castelli e dall’engagement del conte ‘cinematografaro’, dai capolavori in pellicola e dalle direzioni per il palcoscenico, la riflessione di Testori aggiunge infatti gli esiti di un esame d’altra marca, lo scandaglio – certo umano, ma più che critico verrebbe da dire «esistenziale» – di una parabola per sua natura «bigger than life», conseguenza di frequentazioni longeve e di una familiarità non meno durevole.
Sin dalla prima lettura, infatti, non ci si può non chiedere a che genere dovesse rispondere l’ispirazione di Testori, contestualizzata con scrupolo filologico sul 1972 e cioè in frangenti assai significativi per le carriere del ritrattista e del ritrattato; e, di conseguenza, non si può non domandarsi quale sarebbe stata la destinazione editoriale di una simile fatica, concepita verosimilmente per Feltrinelli (prima che il commediografo rompesse con la sua casa storica, passando a Rizzoli), qualora il volume avesse visto la luce nella stesura certificata dalla copia battuta a macchina oggi in deposito alla Fondazione Mondadori.
Al di là infatti delle ragioni occasionali che poterono motivarne la stesura (evidenziate con puntualità nell’attuale premessa al libro), troppo rapsodica risulta la griglia di fatti e date seguita nel comporlo per ascrivere il testo alle consuetudini della biografia, utile a lettori inesperti e a curiosi agognanti notizie precise circa la vita e l’opera di Visconti; allo stesso tempo – lo sottolinea Agosti – non si ritrovano in queste pagine «rivelazioni di vicende altrimenti ignote, dettagli scabrosi, episodi succulenti» che avrebbero saputo imporle come l’instant book prodotto da un ‘ben informato’, nel momento in cui il regista era afflitto da una salute declinante, incerto il futuro del suo ultimo capolavoro, il colossale Ludwig, concepito su una partitura monstre di oltre tre ore.
Perfino la mancanza di un titolo definitivo – quello, azzeccatissimo e confidenziale, posto in copertina all’edizione odierna s’impone per l’intreccio affettuoso dei ricordi consegnati al dattiloscritto – non aiuta a rispondere a un simile interrogativo; infittisce semmai i dubbi circa un’operazione che poteva trovare qualche riscontro economico nell’accostare nomi legati in maniera proverbiale a scandali celebri (sin dal «macello» dell’Arialda e del suo debutto in scena nell’autunno del 1960).
Una chiave di lettura la suggerisce però il medesimo Testori, con indicazioni magari non utili a calcolare il pubblico pensato da riferimento per l’omaggio e però essenziali per chiarire i moventi poetici di un’eulogia tanto enigmatica.
Di fronte alla leggenda sorta attorno a Visconti, nutrita da pettegolezzi e rotocalchi, di una mondanità popolata da amici e da nemici, in un panorama trascorrente fra set e residenze sontuose, lo scrittore opta per un canovaccio che, dichiaratamente, ha a che fare con l’emblematica piuttosto che con il saggio specialistico; una tessitura, insomma, pronta a rinunciare alla cronaca, per quanto storicizzata, nel rivolgersi invece al valore eterno, esemplare di un uomo, di un percorso artistico.
L’idea soggiace a tutto il testo come se la pelle sottile delle parole volesse in primo luogo lasciare intravvedere il sangue del personaggio al centro d’una lode a tal punto concettosa, decantato in alte sequenze di antenati; è però nel dettaglio animalier che si confessa la tentazione araldica provata dal profilo e innervante la composizione d’insieme. Non a caso, Testori si fa eccitare, sin dalle pagine d’esordio, dall’allegoria zoomorfa, segnalando da una parte la metafora offerta dalla passione giovanile di Visconti per i cavalli, dall’altra fermando un’istantanea superba, cruenta del regista adulato da un branco latrante di molossi: scatto virato al nero che, nell’echeggiare il cortese Mantegna padano, compone l’effigie moralizzata di un signore rinascimentale, associato ad attributi inequivocabili e viventi, perno solare di un cosmo compiuto.
L’invenzione stessa di un blasone è ribadita nei paragrafi conclusivi, quando manifesto si fa il proposito di sostituire al «serpente» dell’arme dei Visconti un’«aquila» o un «falco», a simboleggiare la titanica libertà dell’amico, ma anche a suggerirne la rapacità disperata, l’inane spinta creativa, rivolta senza speranze verso paternità artificiose, verso un’assurda discendenza dinastica…
Attorno a polarità siffatte va strutturandosi la meditazione testoriana, che – non a caso – sceglie come figura propria la crepa sanguinosa inflitta dal dolore a ogni esistenza, «quella delle atroci, sacrosante ragioni del tempo»; ma è allora del tutto conseguente che su uno schema non meno dicotomico si organizzino pure gli straordinari apparati posti a commento dell’inedito, divisi, oltre che nella prefazione di cui si è già detto, in un reticolo coltissimo di note e in una «fantasia» centrata sul solo Visconti; una (quasi) monografia, voluta per «fare i conti» col padre di La terra trema e di Rocco e i suoi fratelli in anticipo sul cinquantenario della morte.
È innanzitutto la prospettiva critica di questi strumenti, decantati grazie al vaglio di un’erudizione persuasiva, a creare la prima distanza dalla ribollente, sulfurea agiografia redatta da Testori; come se il contrappunto dovesse di suo alludere a quel paradosso che Agosti rintraccia alle fondamenta peculiari della vita e della produzione del regista, sotteso fra i poli opposti – ma dialettici – di vero e falso; o meglio (per dirla con la prosa convincente dello studioso), «tra presente e passato, tra ricostruzione si fa per dire filologica del tempo perduto e giudizio critico sugli avvenimenti, dove non si sa mai in che cosa consista il limite».
C’è dentro a questo cortocircuito, carico di elettricità, il ricordo del borgo neo-medievale di Grazzano Visconti, fondato dal padre del regista e di cui Agosti rimette in fila fonti e modelli; ma, nello stesso sistema corroborante di antinomie ricadono gli spartiti per immagini di Senso o di La caduta degli dei, del debutto verghiano nel lungometraggio o del crepuscolare Gruppo di famiglia in un interno; chiusa nello stesso cerchio va anche la casa in via Salaria, cui giustamente si dedica ampio spazio, questionandone le immagini storiche prima ancora che le scelte d’arredo.
Ci pare insomma che la prospettiva curatoriale, condivisa coi lettori ammirati, sia stata quella di leggere l’icona Visconti, senza decostruirne il fascino ma interrogandone piuttosto ragioni e moventi, esiti e conseguenze: un modo anche per rispettare la lettera del profilo testoriano, interpretandone il rebus iconografico senza infrangere l’efficacia dell’emblema.
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