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Mediaset, l’«italianità» non c’entra niente

Nella vicenda Bolloré-Mediaset non ci sono buoni e cattivi. Sono tutti cattivi. La saga assomiglia più alla scena finale de «Le iene» di Tarantino, in cui i protagonisti (cattivissimi) si […]

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 16 dicembre 2016

Nella vicenda Bolloré-Mediaset non ci sono buoni e cattivi. Sono tutti cattivi. La saga assomiglia più alla scena finale de «Le iene» di Tarantino, in cui i protagonisti (cattivissimi) si sparano l’uno con l’altro, che ai film edificanti di Frank Capra.

È un dramma a puntate, in cui la verità sfugge. Amore e odio. Dopo il matrimonio annunciato tra Vivendi e Mediaset Premium – con bellicose boccacce all’astro nascente Netflix – ecco il primo cenno di divorzio. Cui succede quella che sembra la sfida finale. Sarà così o c’è anche un po’ di teatralità negoziale? Il finanziere bretone ha lanciato l’offensiva su Mediaset e la casa madre sta cercando di fronteggiarla. Non c’è dubbio. Denunce alle procure, urla e strepiti accompagnano il duello.

Tuttavia, qualche dubbio rimane. Stiamo parlando di soggetti non al meglio di sé. Bolloré sta forse perdendo il controllo del suo gioiello Canal Plus a vantaggio della società telefonica Orange e il suo sponsor Sarkozy è uscito di scena.

Berlusconi, pur con qualche sussulto, ha da tempo imboccato la parabola discendente. Insomma, i due cattivi non è detto che possano fare a meno l’uno dell’altro. Prima o poi, a meno che vi sia un rilancio da parte del sempre vigile Rupert Murdoch.

Si tratta, dunque, di una concentrazione difensiva, resa necessaria dalla urgenza di reggere l’urto dei nuovi oligarchi, gli Over The Top (Google, Facebook, Amazon, e così via), che hanno un modello di business assai meno dispendioso dei vecchi tycoon della televisione o delle telecomunicazioni: niente infrastrutture pesanti e contenuti acquisiti nel vasto universo della rete. Un incontro di pugilato che certamente non finirà ai punti, ma che potrebbe riservare ancora sorprese.

Tuttavia, è risibile parlare di «italianità» da parte di esponenti del governo che finora hanno schifato qualsiasi intervento a difesa e sostegno di «campioni» nazionali: Telecom in testa, sul cui corpo sono passati tanto gli spagnoli di Telefonica quanto i francesi di Vivendi. Quest’ultima è la principale azionista dell’ex monopolista e, se dovesse controllare Mediaset, incorrerebbe nei divieti previsti dal comma 11 dell’articolo 43 del Testo unico delle radiodiffusioni del 2005: le imprese di tlc che hanno una quota superiore al 40% del settore di riferimento «non possono conseguire nel sistema integrato delle telecomunicazioni ricavi superiori al 10% del sistema medesimo».

Sembra scritto proprio in previsione dell’odierna sceneggiatura. Il Sic è di circa 18 miliardi di euro e il gruppo di Cologno Monzese ha più di 3 miliardi e mezzo di entrate. Non per caso la stessa Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha battuto un colpo. Del resto, la norma è chiara.

Allora, invece di sollevare polveroni tricolori, si pensi a far applicare la legge. In verità, l’«italianità» qui c’entra poco. Mediaset va difesa sempre per il perenne Patto del Nazareno. Potrebbe persino parlare in esperanto o stare su Marte.

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