«Nec pueros coram populo Medea trucidet», a teatro non si mostri Medea mentre massacra i suoi figli. È l’ammonimento che Orazio esplicita nella sua Ars Poetica. Medea l’irrappresentabile? «È l’oscenità pura», scrive Tiziano Scarpa, «l’ob-scena, cioè che si mette di traverso sulla scena, l’ob-staculum che impedisce la scena e la cancella: “ob” è il prefisso della contrapposizione, di ciò che si para davanti».

Contravvenendo a Orazio, quest’estate Siracusa si è proiettata senza riserve dentro il mito di questa figura stregonesca: Federico Tiezzi l’ha portata sulla scena del Teatro Greco, affidandone l’interpretazione a una bravissima Laura Marinoni; ritroviamo poi Medea mattatrice negli spazi dell’Antico Mercato, dove 17 artisti contemporanei ne hanno rivisitato il mito con opere pensate e realizzate per l’occasione, con la curatela di Demetrio Paparoni: Medea. Il mito nell’arte contemporanea, fino al 30 settembre.

Nella rappresentazione teatrale Federico Tiezzi, arrivando al nodo del tremendo delitto, lo nasconde, riuscendo però a trafiggere in modo ancor più profondo la coscienza degli spettatori: fasci di luce rosso sangue feriscono una scena immobile, sulle note del Faust rivisitato da Schubert. I bambini si palesano solo con un crescendo di grida scomposte che si sovrappongono fino a sovrastare la musica. Nella cassetta degli attrezzi del regista toscano i ricordi figurativi giocano sempre una funzione decisiva e in questo caso si avverte il richiamo della stanza inondata da un neon rosso sangue di Dan Flavin, dedicata al fratello morto in Vietnam, allestita a Villa Panza.

Il richiamo di Orazio ha avuto un effetto nella tradizione iconografica che accompagna la documentazione visiva del mito di Medea. Sono pochi gli artisti che si sono avventurati nella rappresentazione del momento più cruento: Eugene Delacroix lo ha fatto con quel quadro capolavoro custodito al Musée des Beaux Arts di Lille (1838), impressionante anche per le sue dimensioni monumentali. Medea stringe in una morsa di possesso i due figli, con il pugnale tra le mani; lo sguardo puntato lontano, è come affogato nello spirito di vendetta.

L’opera di Delacroix è un prototipo con il quale è difficile paragonarsi. Intelligentemente Natee Utarit, artista thailandese, lo aggira con il suo trittico Two Boys and the Sacrifice: in un appartamento borghese contemporaneo si scorgono due bambini sdraiati sul pavimento, senza espliciti richiami ad atti di crudeltà. Come in un rebus, il senso della situazione è restituito dalla presenza di un quadro di André van Loo dove si vedono Medea e Giasone davanti ai cadaveri dei loro figli (1759). Il quadro settecentesco è una presenza fuori luogo, dato l’arredamento del contesto; per questo la sua presenza suona disturbante, tanto più che è messa in dialogo con una tela blu con i tagli di Fontana, appesa nella stanza contigua.

La presenza di artisti estranei alla cultura in cui è attecchito il mito di Medea è uno degli aspetti più interessanti e sfidanti della mostra: oltre ai due nomi già citati, vanno annotate le opere di Ruben Pang, di Singapore, di Cian Dayrit, artista filippina, e di Wang Guangyi e Yue Minjun, due star della nuova scuola cinese.

Nel mito della maga della Colchide non mancano certo incroci con gli incubi del mondo di oggi. Lo stesso dramma del matricidio trova riscontri angosciosamente frequenti nella cronaca, allorché la fragilità dell’essere madre paga il prezzo di una solitudine o del cinismo maschile. Tra gli incantesimi di cui Medea si rivela capace c’è anche quello di restituire la giovinezza a Esone, il padre di Giasone suo marito. Il rito a cui sottopone il corpo del vecchio è qualcosa di ben più cruento rispetto alle pratiche sofisticate della chirurgia estetica così diffusamente e ansiosamente praticata oggi per alimentare ugualmente un sogno di eterna giovinezza: l’incantesimo avviene dopo aver tagliato la testa di Esone e le sue membra. Medea aveva fatto bollire il corpo smembrato, operazione da cui Esone era riemerso ringiovanito.

Un rito dai contorni stregoneschi che in mostra viene ripreso senza nessuna timidezza da Nicola Samorì. L’artista si appoggia su una piccola opera di Pasquale Ottino, pittore veronese di inizio Seicento, spogliandola brutalmente di ogni gentilezza. Medea si staglia sullo sfondo di un planetario nero, mentre ai suoi piedi il corpo di Esone, sottoposto al cruento e necessario dissezionamento, dà spunto a una drammatica performance pittorica da parte di Samorì. Opposta la scelta di Francesco De Grandi, palermitano, da tempo impegnato in un interessante percorso di reinterpretazione del sacro. De Grandi ha riportato indietro l’orologio biologico di Medea, trasferendola nell’infanzia mitica della sua Colchide. Nell’immensa tela la protagonista bambina, vestita di pelli e con un serpente tenuto con disinvoltura tra le mani, quasi si perde dentro la natura lussureggiante; il Sole, di cui è figlia, tinge il cielo di striature rosse. Allusione a un ben diverso destino…

Nel percorso della mostra inevitabilmente si assiste a un salto di registro quando sono le artiste ad affrontare il personaggio di Medea. La relazione si fa più spinosa, intimamente sofferta, come se Medea non fosse più vista da fuori, ma vissuta da dentro. A volte vissuta a distanza, come nel caso di Vera Portatadino, varesina, che con il suo lavoro sembra far evaporare la protagonista, di cui non vediamo né il busto né la testa. Nazarena Poli Maramotti, emiliana, s’appoggia sul prototipo di una tela attribuita a Corrado Giaquinto, per far lavorare i dubbi: Medea pensosa è il titolo della sua tela, anche in questo caso di grandi dimensioni (una caratteristica di tante opere in mostra, che garantisce un impatto doverosamente teatrale all’allestimento). La materia pittorica sembra smottare sulla tela; in parallelo anche la determinazione della matricida vacilla, lasciando emergere un non detto, un mai raccontato.
Infine Margaux Bricler, parigina, fa corpo con Medea. In una grande fotografia si rappresenta incinta al settimo mese, nuda, con un uovo di struzzo incatenato al piede e il guscio rotto di un uovo consumato sul pavimento. La foto è parzialmente velata da un’installazione che regge una tela di cotone bagnata di rosso porpora nella parte bassa. Un coltello infilato nel telaio fa da sigillo all’insieme. «Medea mi si è attaccata alle calcagna, prima di una serie di criminali mitiche presenti nel mio lavoro, le cui gesta rappresentano altrettante maniere di scolpire, di figurare» scrive nel bel testo con cui, come tutti gli artisti, accompagna la sua opera nel catalogo. Un acuto nel percorso della mostra che ci dice quanto sia illusorio pensare di liberarsi di Medea.