Medaglie. In guerra e in pace
In una parola La rubrica a cura di Alberto Leiss
In una parola La rubrica a cura di Alberto Leiss
Il generale Figliuolo, che si sta occupando di organizzare le nostre vaccinazioni, è stato preso in giro per la quantità di “nastrini” che esibiva sulla propria uniforme in qualche conferenza stampa.
Ho visto almeno due bravi comici in tv esibirsi in divertenti gag con enormi improbabili rettangoli di nastrini ai quali venivano aggiunte ulteriori medaglie.
La satira è libera di scherzare su tutto. Tuttavia il valore delle medaglie, in particolare quelle assegnate come riconoscimenti a militari, non va sottovalutato (anche se, stranamente, una delle ipotesi etimologiche sull’origine della parola, rimanda al latino medialis ,che indica un soldino che vale la metà di un’altra moneta…).
Cerco di combattere, con piccole armi linguistiche, la metafora distorcente della guerra per descrivere la pandemia. Ma ormai ha vinto nel linguaggio comune. Susan Sontag ha osservato durante l’esplosione del contagio di AIDS – anche allora si parlò di “guerra” – che non basta evitare le metafore che non ci piacciono: “Devono essere smascherate, criticate, attaccate, demolite”.
Magari provandoci dall’interno del loro portato simbolico?
E allora sì, siamo in guerra, come i nostri nonni e genitori, una notte del 1940, sotto i bombardamenti del nemico. Come capitò a Virgina Woolf, che da quell’esperienza di angoscia trasse un testo intitolato “Pensieri di pace durante un’incursione aerea”. L’ho trovato citato da un amico su facebook (che in fondo può essere utilizzato anche a fin di bene) e lo ripropongo.
Vi si parla dei sentimenti che spingono i giovani uomini (i soldati inglesi che combattevano contro Hitler) a armarsi e uccidere, per una causa giusta.
“Combattere contro un nemico reale, meritare eterno onore e gloria uccidendo dei perfetti sconosciuti, e tornare a casa con il petto coperto di medaglie e di decorazioni, quello era il colmo delle mie speranze… A questo era stata dedicata, finora, tutta la mia vita, la mia educazione, la mia preparazione, tutto…”
Queste – scrive Virginia Woolf – sono le parole di un giovane inglese combattente. Non basta, argomenta, parlare di “disarmo”. “Quel giovane aviatore in cielo non è spinto soltanto dalle voci degli altoparlanti; è spinto anche dalle voci che ascolta in sé, antichi istinti, istinti incoraggiati e nutriti dall’educazione e dalla tradizione. Glieli dobbiamo forse rimproverare?”.
Non basta nemmeno vincere la guerra contro Hitler, perché ciò che fa “tutti prigionieri”, i nemici in volo, come i giovani inglesi, come le donne costrette in casa o impiegate nell’industria bellica, è un “inconscio hitlerismo nel cuore dell’uomo”. “È il desiderio di aggressione; il desiderio di rendere schiavi. Perfino nel buio possiamo vederlo chiaramente… Se potessimo liberarci dalla schiavitù, avremo liberato gli uomini dalla tirannia. Gli Hitler sono generati dagli schiavi… “. E ancora: “Dobbiamo aiutare i giovani inglesi a togliere dai loro cuori l’amore delle medaglie e delle decorazioni. Dobbiamo creare attività più onorevoli per coloro i quali cercano di dominare in se stessi l’istinto combattivo, l’inconscio hitlerismo. Dobbiamo compensare l’uomo per la perdita delle sue armi”.
Possiamo lottare con la mente, dice Woolf, qualcosa che anche in questo tempo di un altro genere di paura (nessuno ci bombarda, almeno per ora, si tratta di curare una malattia, che forse ci siamo attirati per incuria del mondo) possiamo tentare vincendo la paura.
(Il testo è breve ma dice molte altre cose interessanti su gli uomini e le donne, nel libro: Virginia Woolf Voltando pagina. Saggi 1904-1941, a cura di Liliana Rampello, il Saggiatore 2011. Se non lo avete ancora letto, vi consiglio di farlo).
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